Gianfranco Capitta
Intervista a Pierre Constant

Pierre Constant arriva alla Fenice con una grande fama di regista lirico conquistata soprattutto in Francia, ma non solo. Tanto che uno dei primi a spingerlo a lavorare sulla scena operistica è stato Gerard Mortier, oggi acclamato quanto discusso direttore del Festival di Salisburgo, e responsabile allora (nei primi anni Ottanta) dell'importante Théâtre de la Monnaie di Bruxelles. Ma la storia artistica di Constant comincia come attore, interprete di testi importanti e non conformisti come Il funambolo di Jean Genet, o addirittura scritti per lui, come Sul filo di Fernando Arrabal, messo in scena al Théâtre de l'Atelier da un regista oggi importantissimo (ha diretto a Parigi il Teatro pubblico della Colline), il francoargentino Jorge Lavelli. Ma il debutto artistico assoluto di Constant era avvenuto ancor prima, sulla pista del circo dove lui era acrobata, giocoliere e trapezista.
Insomma è una figura complessa, in grado di padroneggiare molti linguaggi spettacolari, da sempre interessato a misurare e confrontare i suoni con le possibilità del corpo e della voce. Proprio da questo suo eccentrico patrimonio cominciamo la nostra conversazione, mentre con grazia e fermezza inizia le prove di Samson et Dalila incontrando la compagnia nel foyer del Palafenice.

Cosa significa mettere in scena un'opera per chi ha alle spalle una esperienza forte di protagonista in teatro ed al circo?

Non c'è differenza, per me, tra un'opera musicale e una pièce teatrale che si affida solo alla parola. C'è naturalmente una cosa importante: la musica, i suoi tempi, i cantanti, gli orchestrali e il coro hanno una diversità, e dobbiamo armonizzare insieme queste diversità. Ma il lavoro preparatorio è lo stesso per un'opera lirica come per un'opera drammatica. C'è la stessa esigenza drammaturgica che richiede esattamente le stesse cose. Quello attuale è un momento molto interessante della storia dell'opera: molti cantanti adesso lavorano in modo simile a quello degli attori. E talvolta vedo cantanti assai più vicini alla recitazione che al canto: vogliono a tutti i costi interpretare il loro personaggio. Mi pare una vera novità, che dà a noi registi la possibilità di andare più lontano, di fare cose più "pericolose" rispetto agli stereotipi operistici.

Un "andare più lontano" che forse va però più vicino al pubblico.

Forse sì. Io credo che il pubblico trovi in questo caso una relazione più immediata e generosa con una forma teatrale come l'opera. E dico perfino più "intelligente". Io non intendo dire che il pubblico dell'opera non lo sia: ma è sensuale, istintivo, attento davanti al lavoro sul corpo, su tutti i sensi, sulle emozioni; ma perbacco, l'opera è un lavoro di riflessione, come dimostra la riflessione fatta da Mozart, da Verdi, da Wagner. Essi hanno lavorato sulla drammaturgia altrettanto che sulla musica!

Oltre a diverse opere di Mozart, lei ha messo in scena proprio molti titoli di Verdi. Ha privilegiato in qualche modo l'opera romantica?

No. Non ho realizzato moltissime opere, con Samson et Dalila saranno una ventina.

Che non sono pochissime...

Non lo so, ma alla fine non mi sembrano neppure molte. Attualmente è in particolare l'opera francese che mi interessa, e dunque titoli come Samson. Ho appena allestito Werther, e prossimamente un titolo di Berlioz, Béatrice et Bénédict. È questo l'ambito che mi interessa di più: i problemi dell'opera francese. Che non sono affatto semplici. Prossimamente lavorerò per la prima volta su Britten: non ho l'impressione di aver privilegiato l'opera romantica. L'unica, vera, che ho fatto è stato Don Giovanni. È lui che, con l'orchestra, flirta con l'idea del romanticismo.

Cosa è per lei Samson et Dalila?

È una storia di guerra e d'amore, possiede quindi gli ingredienti essenziali del teatro. Nella Bibbia non c'è molto, ma è lì che si incontrano, e Saint-Saëns è partito da lì. Sansone è un uomo segnato da Dio dalla nascita, qualcosa gli è rimasto impresso. In seguito è diventato un tipo campagnolo, un po' violento, molto amante delle donne. Si sposa con una donna filistea, contro la tradizione ebraica e la volontà dei genitori, poi va al bordello a cercare puttane (è scritto) e in seguito si invaghisce di questa donna della valle di Sorek che è Dalila, che non si sa bene se non sia anche lei una cortigiana d'alto bordo o qualche cosa di simile.
Dunque, passando a Saint-Saëns e al libretto della sua opera, Sansone è un uomo che con tutta evidenza adora questa donna che non conosce troppo bene ma per la quale nutre una passione fisica colossale, mentre da parte di Dalila c'è disprezzo e odio. Lo sappiamo subito, già al secondo atto. Dunque è un amore che batte da una parte sola, un amore unilaterale: Sansone è abbagliato da questa donna che invece lo detesta. Per un amore carnale, per il desiderio di lei, lui tradisce il suo popolo e il suo Dio. Credo che qui sia tutto il senso dell'opera. Trova alla fine redenzione, ma morendo lui stesso. Dunque il punto di partenza è nella Bibbia, ma Saint-Saëns non era affatto cristiano né credente, era piuttosto lontano dalla fede. Ma questo è un conflitto tra il bene e il male, una contrapposizione quasi manichea che subisce fasi alterne: una volta Sansone è vincitore, la volta dopo viene sconfitto, e dopo è ancora vincitore. È un po' la storia di ogni uomo, del nostro mondo, il ciclo abituale della storia.
Io credo che tutte le epoche hanno vissuto l'orrore della guerra, e anche noi l'abbiamo appena vissuto, ne siamo appena usciti ma potrebbe tornare. Dunque noi parliamo nell'opera di Gaza e di Palestina...

In questo caso c'è un riferimento quasi bruciante ai nostri giorni...

Certo, anche se noi non parliamo affatto dei palestinesi e degli ebrei di oggi, e non sarebbe giusto fare dei riferimenti forzati o pretestuosi. Questo non ci impedisce però di raccontare la violenza della guerra, l'oppressione di ogni vincitore sui vinti, e il continuo rovesciarsi della storia.

Lei ha pensato ad una guerra in particolare per la scenografia e l'ambientazione?

No, non ho voluto dare una connotazione precisa, anche se le situazioni permettono allo spettatore di identificarne la contemporaneità, vedendo persone imprigionate, in abiti di oggi. Nello stesso tempo io vorrei che nel secondo atto, all'incontro tra Sansone e Dalila, si possa dire che è come nell'antichità. Perché lei è in abiti da casa e a un certo punto indossa un soprabito. Il passato deve essere una "citazione", piuttosto simile a un battito d'occhi che a una ricostruzione archeologica. Posso portare come esempio la scena finale: non si vedranno certo le colonne che crollano, ma questo sarà suggerito solo dall'illuminazione. Ci saranno due colonne di luce, che tremeranno per la forza interiore di Sansone, la forza del suo spirito e della sua volontà di uomo.

Vince insomma la force de frappe dei sentimenti. In un piccolo libro pubblicato da Adelphi, Puer aeternus, lo psicologo James Hillman nel suo bellissimo saggio sul tradimento cita tra i grandi casi classici proprio Sansone. Poi curiosamente, cita in quello stesso saggio Jean Genet, di cui lei è stato interprete illustre sulla scena. Mi sembra una coincidenza curiosa.

Sì molto, anche se il "tradimento" non è lo stesso. Io ho interpretato a teatro Il funambolo ma non ho mai conosciuto direttamente Genet. Ma la sua scrittura, che è grande letteratura, mi ha molto influenzato. E così il suo essere uno straordinario uomo di teatro.

Per riprendere la tipologia di Hillman, è giusto che Sansone stia tra i grandi "traditori" del mito, ma anche Dalila non ha un comportamento proprio "onesto" nei confronti di lui. Chi tradisce chi, secondo quanto ha detto?

Io penso che il tradimento più grande sia quello d'amore. È un tradimento fondamentale, il peggiore di tutti, è una cosa terrificante. È vero che Sansone tradisce il suo popolo, ed è un tradimento che colpisce molte persone. Ma io credo che nel segreto dell'assoluto, il tradimento amoroso è una cosa incredibile, più che crudele, mortale. Io non so se nell'opera Sansone sia in realtà più annientato dalla scoperta di aver tradito il suo popolo per qualche cosa che era niente, che l'aveva ingannato.

Perché Dalila ha a sua volta tradito Sansone?

Ella non fa che tradire un uomo, un individuo, ma dando la morte a Sansone compie con quello stesso gesto una sorta di dovere civile, salva in quel modo la propria patria.

Dunque solo lui è un vero traditore? E di un tradimento mortale.

Sì, io avanzo con prudenza in questo territorio. Come sempre a teatro, bisogna dubitare senza fermarsi, mettere sempre in discussione tutto quello che appare, perché è sempre possibile il contrario. Poi si è obbligati a prendere delle decisioni, a un certo momento, ma essendo coscienti che si sacrificheranno molte altre cose che potrebbero essere migliori.

Lei ha recitato Genet, che forse è il modo oggi più corporeo e vitale di vivere in scena la libertà, la sessualità, la trasgressione. Nella sua storia d'artista, questo ha coinciso con una scelta biografica di cercare sulla scena la propria vita?

Io so che il teatro non serve certo a raccontare la propria vita, ma nello stesso tempo so che il teatro è il luogo della libertà totale, ma anche del senso delle cose. La libertà è che coloro che fanno una cosa devono metterci i loro segreti. È questo che è interessante. Un attore ci interessa non tanto per quanto è bravo, ma per quanto si lascia sfuggire: la sua deriva, la sua anima, la sua impossibilità di vivere. D'altronde, io penso che il teatro sia il luogo del conflitto, il luogo che mette a nudo i conflitti per far sorgere delle domande e dare delle risposte. E solo chi fa teatro (attore o cantante o regista, ma anche scrittore o musicista) deve offrire un terreno di mistero dove ognuno deve rischiarare il mistero di questa creazione, aggiungere il proprio mistero, il proprio conflitto, la propria domanda e la propria complessità. Ed è lo shock di tutto questo, io credo, che fa la chiarezza di uno spettacolo, che a sua volta permette agli altri di mettersi a nudo.

Facendo ancora riferimento a Genet, definito da Sartre "santo, attore e martire" nel titolo di un saggio famosissimo, anche per Samson et Dalila l'amore è estremo, ha qualcosa che lo fa somigliare al martirio. Ma è possibile raccontare sentimenti estremi in una sorta di opera kolossal, come questa di Saint-Saëns?

La struttura stessa dell'opera è però piuttosto particolare. Il compositore ha cominciato a scriverla dal secondo atto, ed è un atto a due (o al massimo tre) personaggi, molto semplice, quasi una scena d'amore a due. E solo dopo ha composto quell'insieme che sappiamo. Dunque non c'è unità di scrittura drammatica tra le sue parti. Pensando alle opere dell'Ottocento, abbiamo l'idea di grandi macchine spettacolari: molte persone, grandi cori che hanno notevole importanza; vi si parla della Bibbia, noi facciamo istintivamente riferimento al cinema dei kolossal hollywoodiani, insomma quanto può richiamare l'Arena di Verona.
La storia però è quella di un uomo che ama una donna in una società in guerra, ma è anche la storia di una falsa coppia. Non è una vera coppia quella di Sansone e Dalila, è divenuta nei secoli una coppia mitica, ma non è una "coppia". È la storia di un uomo che lotta contro un amore assoluto, un amore certo mentale, ma anche straordinariamente fisico. E la Bibbia spesso evoca l'amore fisico degli uomini e delle donne, spesso lo immerge nella violenza, e lo fa con un linguaggio violento e duro. Noi siamo in ogni caso davanti al rapporto di un uomo e una donna in conflitto, dunque andiamo a metter in scena quanto era nella testa di Saint-Saëns, il suo disegno essenziale e originale. Quello che fa apparire il racconto quasi un ricordo di Sansone, che solo dopo si confronta con la presenza delle folle di popolo. Noi abbiamo voluto il popolo fisicamente ben presente, sempre in scena, quasi un pungolo di Saint-Saëns con cui rapportarsi, anche se l'eroe dell'opera vorrebbe dimenticarlo per poter vivere. Sansone non si tira indietro dal tradire il suo popolo per questa giovane donna, non esita a tralasciare amici e compatrioti per potersi unire a lei. Ma si può dire, e la Bibbia lo dice, che Jahvè gli permette questo tradimento perché potrà così riuscire nell'intento di distruggere i filistei. Egli costituisce "l'arma" divina contro quel popolo.
In questo senso Sansone è vicino alle creature di Genet: attraverso il martirio, l'ignominia e l'abiezione, appare il "santo". Ma bisogna attraversare quel percorso, il male, il tradimento, per attingere alla santità. Che è poi la fede secondo sant'Agostino, semplicemente.

Dai grandi teatri francesi ed europei dove lavora abitualmente, come pensa di portare la grandeur visiva di Samson et Dalila sulla scena del PalaFenice?

In effetti ho dovuto tener conto di questo luogo, così particolare: non c'è altezza, abbiamo un fronte scenico piuttosto largo, siamo sotto un tendone. Con Lauro Crisman abbiamo pensato molto a questo, e al fatto che io volevo qualcosa di molto semplice: qualcosa di lineare che sia in grado di cambiare ma anche di poter tornare come prima. Abbiamo seguito l'idea della "rotondità" delle cose.

Per rendere tangibile quella ciclicità della storia cui alludeva prima?

Sì. Quando io devo lavorare in un luogo, prima lo guardo, e non è detto che vada sempre bene, magari ha una forma diversa da quella su cui avrei voluto lavorare. Se ne deve tenere conto per forza. Questo, ad esempio, non è un luogo che autorizzi qualsiasi cosa. Non sul piano acustico, ma su quello squisitamente estetico: la visione qui non è la stessa che all'Opéra di Parigi. Spero di lavorare sulla scenografia in maniera coerente con lo spazio.

Quindi non si è sentito limitato?

No, spesso il limite iniziale può trasformarsi in uno spazio di libertà. Amo molto il teatro, e quindi sono convinto che le costrizioni, quando ce ne siamo liberati, permettono molto spesso una nuova libertà. Credo che un luogo possa essere considerato come un cantante, che sa fare bene certe cose e non altre. Non si può lottare contro un luogo, ma assecondarne le possibilità esattamente come per una cantante o un cantante. Si può combattere contro un testo (il libretto di Samson et Dalila è piuttosto brutto), ma non si può contro la musica, non l'ho mai fatto all'opera. Si può lottare contro un cattivo testo per cercare di andare oltre il suo senso, purché naturalmente non sia in contraddizione con il senso globale. Una volta ho allestito Simon Boccanegra, e nella scena in cui il protagonista ritrova dopo tanti anni sua figlia, il cantante voleva a tutti i costi starle attaccato. Gli ho dovuto ripetutamente proibire di farlo, anche se lui mi rispondeva che questo era previsto dal testo. Discostandosi da questo, il senso alla fine era più forte, e coerente con la musica.

Cosa pensa che possa e debba dire l'opera al pubblico di oggi? Penso all'opera lirica in generale, e in particolare a questa Samson et Dalila.

L'opera, come il teatro, non hanno mai cambiato il mondo, è vero, ma aiutano a riflettere, sono uno specchio del mondo. Noi ci raccontiamo il mondo, attraverso lo spettacolo. Ogni tipo di spettacolo rispecchia e racconta il proprio mondo, la propria epoca; certo ci deve portare del piacere, ma ci fa anche riflettere sulla nostra storia. Nello stesso tempo l'opera, che è così lontana, fissa e chiusa in se stessa, si è da qualche tempo liberata, e forse oggi è talvolta più "avanti" del teatro di prosa. Che forse in questo momento ha esaurito tutte le sue ricerche, i suoi avanzamenti, le sue audacie. La musica no: davvero a volte si ha più voglia di coraggio, impudicizia, rischio nell'universo dell'opera, che già contiene in se ogni rischio e pericolo, piuttosto che in campo drammatico. Un cantante ha il pericolo insito nel proprio mestiere: arrivare alla fine di un'aria è un'impresa grandiosa, che suscita la mia massima ammirazione. Quello lirico è il terreno della messa a rischio permanente. L'opera lancia la sfida a tutti, e perfino lo spettatore deve assumersi i propri rischi. Che ogni tanto lo investono.
Dico tutto questo con discrezione, perché non so come nascerà questo nostro Sanson et Dalila, che potrebbe magari risultare uno spettacolo assai "reazionario", cosa che naturalmente non vorrei. Alla fine del secondo millennio, penso davvero che l'opera sia il terreno in cui il teatro può spingere a una vasta riflessione, trovare le forze nuove e spingersi molto più avanti.

Un'ultima curiosità: Pierre Constant ora mette in scena opere sui maggiori palcoscenici. Ha qualche nostalgia di se stesso attore?

Non è nostalgia. Di recente sono tornato a recitare, e sentivo la gioia grande di non avere "responsabilità"; avevo l'impressione di essere leggero, di non avere peso, rispetto alle pesanti responsabilità che implica la messa in scena di un'opera. Bisogna comandare, ma soprattutto condividere: si tratta di dare vitalità a certe zone, di trovare un rapporto anche umano, e quindi bellissimo.
Non ho nostalgia di quando ero attore, non solo perché è un sentimento che non amo, ma perché passando da un progetto all'altro non ce ne sarebbe neanche il tempo. Del resto, se volessi fare ancora l'attore, dovrei prendere del tempo per prepararmi, e la mia vita peggiorerebbe. Quando uno è attore, si mette tra le mani degli altri, e questo è bello. Ma la gioia totale di essere un po' dentro il ruolo, un po' con il suo regista, un po' con il pubblico, sono condizionamenti tali che non si ha mai un piacere totale. E talvolta un percorso d'attore lascia delle tracce di vuoto, senza compiersi totalmente, perché non ha mai avuto totalmente la responsabilità.
Io metto in scena Samson et Dalila, e ne sono il solo e unico colpevole e responsabile. Che vada bene o male, io so di esserne responsabile; se va male andrò a piangere negli angoli, se andrà bene avrò la gioia e la spinta per intraprendere nuovi progetti. Il ruolo dell'attore, per quanto mi riguarda, mi ha lasciato spesso un senso di incompiutezza totale.