IL GAZZETTINO Per la "Madama Butterfly" Venezia. Yuri Ahronovitch ritorna al PalaFenice, e ritorna a Giacomo Puccini. Il maestro russo aveva già affrontato nella scorsa stagione il capolavoro giovanile di Puccini (e forse il suo capolavoro assoluto), "Manon Lescaut": l'opera (1893) dove la disperazione d'amore tocca il suo culmine strutturale in un'architettura musicale segnata dal "disfacimento" e da una morbosa, intossicante voluttà di espiazione. In "Madama Butterfly " (1904) Puccini celebra una magistrale rielaborazione del proprio concetto di "esotismo", e innesta un'angosciosa tragedia di violenza, abbandono e maternità ferita dentro l'impianto feuilletonistico del "dramma giapponese" di David Belasco. La Fenice, che aveva già proposto la versione "filologica" in due atti che cadde alla Scala il 17 febbraio 1904, offre ora la versione tradizionale ma compattata in due quadri, e richiama Ahronovitch a quello che il maestro ci conferma essere uno dei suoi grandi amori. Maestro Ahronovitch, che cos'è Puccini per un russo? "Fra i compositori romantici o del tardoromanticismo, uno dei più grandi. Ricordo che avevo diciassette anni, e dovevo dirigere il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra di Prokofiev, con il maestro come solista. Ero letteralmente terrorizzato, quando andai a casa sua per studiarlo insieme all'autore. Vidi sul suo pianoforte lo spartito di "Turandot", e gli chiesi timidamente: "Compagno Prokofiev, mi pare che lei ammiri Puccini". La risposta fu immediata: "L'opera lirica era pronta per essere uccisa, grazie ad un signore di nome Richard Wagner; ma grazie a Giacomo Puccini adesso è salva"". Singolare atteggiamento, nell'Urss del comunismo reale e dei rapporti Zdanov... "Specialmente in quel periodo la popolarità di Puccini era enorme, ma non è mai calata. Ancora oggi, è sufficiente scrivere il suo nome su un piccolo foglietto e affiggerlo all'esterno di un teatro per garantirsi il tutto esaurito". Lei afferma dunque che Puccini è un simbolo universale? "Assolutamente sì. È un simbolo di umanità, di emozioni, in particolare in quest'epoca schiava dei computer. Egli ci aiuta con la sua musica a recuperare commozione, amore, sentimenti. Sembrano parole fuori moda, ma si ricordi che le ritroviamo ad esempio come notazioni nelle partiture di Ciaikovski, "con sentimento", "doloroso". Ecco, io penso che Puccini sia un po' il nostro Ciaikovski, così come Mussorgski è invece il nostro Verdi. Non è un caso che i cantanti che eseguono Puccini siano generalmente ottime voci anche per l'opera russa. È la conferma che egli rappresenta anche un grande punto d'incontro fra culture". Quali le differenze, anche dal punto di vista di un approccio interpretativo, fra "Manon Lescaut" e "Madama Butterfly "? ""Manon Lescaut" era un'opera già così completa, così perfetta che Puccini ha continuano ad utilizzarne elementi anche nelle opere successive; inoltre contiene una frase, le ultime parole pronunciate da Manon, che costituiscono un po' la filosofia di Puccini: "l'amor mio non muore". Sia Manon che Butterfly muoiono tragicamente, come tutte le eroine pucciniane, ma il loro amore non morirà mai. Io personalmente mi sento salvato da questo messaggio". Si parla molto dell'"esotismo" pucciniano, sia in "Butterfly " che in "Turandot". Qual è la sua opinione, partitura alla mano? "Io credo che il materiale orientale, come le scale pentatoniche o gli strumenti esotici, fossero per Puccini alla stregua di un costume femminile, in realtà molto meno importanti come linea generale compositiva: l'orientalismo di Puccini è una semplice circostanza in cui vive la sua eroina. Butterfly poteva essere tranquillamente nera o bianca, ma ciò che sarebbe rimasto invariato sarebbero state le sue emozioni, le sue sofferenze, la sua umanità. Ed è per questo, come dicevo prima, che la musica di Puccini è amata da tutti". Perché, secondo lei maestro, Puccini prediligeva le eroine femminili, destinandole quasi sempre a tragica fine? "Vede, Puccini era quel che si dice un "uomo vero". Amava le donne, l'ha dimostrato tutta la vita. Alma Mahler, celebre mangiatrice di uomini, disse una volta di lui: "Un grande compositore, anche se non sempre sono d'accordo con lui sulla sua musica, ma come uomo!...". Io credo anche che la sofferenza delle sue eroine servisse a Puccini per sottolineare una particolare condizione femminile della sua epoca e in una società guidata da uomini". Maestro, si sa che molti si commuovono ascoltando Puccini. A lei succede? "Non ho nessun pudore a confessare che quando dirigo Puccini io spesso piango: non credo ci sia persona con un cuore che quando ascolta "Un bel dì vedremo" o "Tu, tu piccolo Iddio" non soffra. E io soffro con loro". Roberto Pugliese |
IL GAZZETTINO Robert Wilson cura la regia dell’opera pucciniana Venezia. "Sotto un'apparente anarchia, si trova una struttura nitida, un ordine semplice e disciplinato che regge tutto": così , quasi attingendo al trascendente, Robert Stearns ha definito l'opera di Robert Wilson. Nella purezza della spazio-temporalità da lui raffigurata, non c'è luogo per l'invadenza di codici iconografici, si respira la rarefazione della spiritualità più profonda. L'essenzialità è l'unica via di accesso all'universalità dei significati. Così , nella razionale ricerca di un comune denominatore tra scrittura, musica, pittura, architettura, in oltre trent'anni di lavoro ha messo in scena testi tratti da Euripide, Shakespeare, Marguerite Duras, Virginia Woolf, Georg Bchner, Gertrude Stein, Anton Cechov. E nella musica lirica Gluck, Wagner, Nono, Stravinskij, Puccini, cogliendo dell'opera di ciascuno direttamente il senso del suo passaggio alla storia dell'arte mondiale. Incontriamo Wilson, ora impegnato nella regia di "Madama Butterfly ", durante una brevissima pausa delle prove al PalaFenice, qualche minuto e poi ancora al lavoro.Lei ha scritto di essere convinto che per "Madama Butterfly " Puccini avesse nella mente un allestimento ridondante ("kitschy setting"). Quali sono state le Sue scelte di regia? "Spesso i compositori non sanno portare a compimento le proprie opere, nel senso che un eccellente musicista, può non essere in grado di dirigere il proprio lavoro sulla scena. La tradizione vuole lo stage di Madama Butterfly insopportabilmente ridondante, falsamente giapponese, carico di oggetti e colori che non fanno altro che distrarre l'attenzione dalla musica. Al contrario, il mio lavoro mette in piedi un meccanismo il cui unico scopo è quello di privilegiare la musica, soprattutto laddove, come in Puccini, è travolgente". Dunque il set è una sorta di simulazione di uno 'spazio mentale'? "Più affollata è la scena, più è mediato il rapporto dello spettatore con il capolavoro cui si trova ad assistere. La finzione esasperata è nemica della profondità. Non sembri un paradosso se a teatro a volte si sente il bisogno di chiudere gli occhi, poiché c'è una sorta di competizione tra scena e musica. E un regista non può disattendere questa legittima esigenza. Dunque, estrema semplicità e uso di materiali naturali come il legno e la pietra. E' un modo di offrire uno spazio al dispiegarsi totale della musica". E, in tal modo, consentire ai cantanti anche di parlare 'il linguaggio del corpo', che nei suoi lavori è di estrema eleganza... "Meno legami o vincoli spazio-temporali ci sono, più la meditazione sui temi proposti dall'opera è profonda. Il palcoscenico non è una vetrina da allestire immobile, ma è uno spazio libero alla contemplazione. In questo luogo acquisisce così grande importanza il movimento dei cantanti-attori, che non può essere intralciato e penalizzato da scenografie ingombranti". Sono parole sue: "La luce è attore protagonista" (citiamo, tra i tanti memorabili, solo due esempi a questo proposito, "Einstein on the Beach", realizzato con il compositore Philip Glass, e l'allestimento del "Lohengrin" al Metropolitan Opera). Questo ruolo è la conseguenza della 'dematerializzazione' della scena? "E' la luce che crea lo spazio, apre lo spazio alla vista e al pensiero. Nel caso dell'opera lirica guida lo spettatore dentro alla musica. E', dunque, l'elemento più importante. Quando la luce in uno spettacolo è realizzata male, focalizza in modo errato l'attenzione e la concentrazione dello spettatore, vanificando ogni significato". Lei ha ricevuto centinaia di premi e riconoscimenti per il Suo lavoro, tra questi nel 1993 il Leone d'Oro della Biennale di Venezia per la scultura. Immaginando la nostra città come fondale, che cosa realizzerebbe? "Venezia è città di luce. Stamattina ho visto il lavoro di un maestro vetraio e ne sono rimasto affascinato. Ecco, credo proprio che userei il vetro, con la sua sublime densità di trasparenza, capace di riflettere il passato e illuminare le possibilità creative del presente". Adriana Vianello |