sabato 22 dicembre 2001

Al Malibran
"L'Olimpiade" riscoperta

di Paolo Petazzi

Venezia. La prima rappresentazione moderna della "Olimpiade " di Domenico Cimarosa, spettacolo conclusivo della stagione 2001 della Fenice, è una proposta del massimo rilievo, anch'essa legata (come nel 2000 il bellissimo "Siroe" di Handel) alle celebrazioni del terzo centenario della nascita di Metastasio. Fra le molte intonazioni de "L'Olimpiade " (1733), dramma per vari aspetti esemplare, si imposero con particolare successo dapprima quella di Pergolesi e in seguito quella che Cimarosa compose nel 1784 per l'apertura del Teatro Eretenio di Vicenza.

È un capolavoro dimenticato nella cui straordinaria ricchezza musicale sono valorizzate con la più intensa suggestione le nuove prospettive di lettura e le trasformazioni del mirabile testo metastasiano, adattato ad un gusto più "attuale" 51 anni dopo che era stato scritto. Nell'adattamento (di cui non si conosce l'autore) è scardinata la perfetta, calibratissima costruzione del dramma di Metastasio, dove si intrecciano con uguale rilievo nelle vicende dei cinque protagonisti le pene amorose di Aristea e Megacle, la nobile grandezza dell'amicizia di Megacle e Licida, lo smarrimento di questi e il conflitto interiore di Clistene, che nella sua veste di re si sente in dovere di punirlo anche se ha riconosciuto in lui suo figlio. L'interesse di Cimarosa e dei suoi contemporanei si concentrava tutto sulla patetica storia dell'amore contrastato di Megacle e Aristea, ed era molto sentita l'urgenza di far procedere l'azione più rapidamente e di lasciare maggiore spazio a una musica che aveva assunto forme nuove (e più ampie o più flessibili).

Così il testo è ridotto a poco più della metà, sacrificando le parti di Licida, Argene e Clistene, ampliando quelle di Aristea e Megacle, semplificando la azione, riducendo drasticamente il racconto degli antefatti e i trapassi psicologici nel comportamento dei personaggi, in particolare nel caso della folle disperazione che spinge Licida a tentare di uccidere il re. Le trasformazioni distruggono la calibrata razionalità (in Metastasio fondata sui poteri comunicativi della parola) a vantaggio della musica, dell'accendersi dell'emozione, della rapida intensità; ma esaltano anche una componente che già in Metastasio aveva grande evidenza poetica, quella delle pene amorose alle quali sono legati non per caso alcuni dei passi più famosi del testo, dal duetto "Nei giorni tuoi felici" all'aria di Megacle "Se cerca se dice". Anche in queste pagine la grandezza di Cimarosa si rivela con mirabile intensità malinconica, e nella stessa prospettiva soffusa di mestizia e di arcana dolcezza si collocano molte altre meraviglie della partitura: forse è questa la chiave essenziale per comprendere il rapporto del compositore con il grande testo di mezzo secolo prima. Ma va sottolineata anche la risentita evidenza drammatica di alcune pagine, soprattutto dei notevolissimi recitativi accompagnati dall'orchestra.

Tutto ciò ha trovato bella evidenza nella interpretazione del direttore Andrea Marcon con l'Orchestra Barocca di Venezia e di una ottima compagnia di canto, dove Patrizia Ciofi è stata una Aristea molto intensa, ma capace anche di affrontare pagine di impervio virtuosismo, e dove Anna Bonitatibus (Megacle) ha offerto una prova altrettanto persuasiva. Accanto alle splendide protagoniste si sono fatti apprezzare la brava Ermonela Jaho, Bruno Lazzaretti, Luigi Petroni e Laura Brioli (un poco acerba). Sobria e pertinente la regia di Dominique Poulange, costumi settecenteschi e scene assai semplici di Francesco Zito.

 


sabato 22 dicembre 2001

Successo al Malibran per l'opera di Cimarosa
Ecco com'era e com'è la vera «Olimpiade»

di Mirko Schipilliti

VENEZIA. Riscoprire Domenico Cimarosa, al di là del Matrimonio Segreto, peraltro poco frequentato, è stato una rivelazione, grazie alla scelta di allestire la sua Olimpiade (1784) al teatro Malibran in occasione del bicentenario della morte del compositore e delle celebrazione ancora in corso per il terzo centenario della nascita di Pietro Metastasio, autore del libretto. La felice intuizione di recuperare una delle decine e decine di opere del '700 italiano praticamente dimenticate proponendo un lavoro conservato nella biblioteca marciana, si è dimostrata efficacissima, specie se messa nelle mani di uno specialista del '700 come Andrea Marcon, che ha diretto l'Orchestra Barocca di Venezia su strumenti d'epoca.

Il lavoro interpretativo, per la prima rappresentazione in tempi moderni dell'Olimpiade, si è avvalso dell'analisi critica di Alessandro Borin e della revisione di Marcon, visionando fonti autografe e manoscritti. Leggerezza di suono, ricchezza e chiarezza di fraseggio hanno ricostruito la veridicità degli equilibri di raffinate tessiture vocali e strumentali, lungo una partitura che tocca vette altissime insieme a momenti occasionali, che ci interroga sui legami fra Cimarosa e i contemporanei, fra cui Mozart. Ma gli esiti più felici nascono dall'incontro fra musica ben scritta e interpreti in grado di scoprirne i segreti più invisibili ripulendone ogni impurità: sono davvero rare le occasioni per assistere ed emozionarsi a un lavoro così meticoloso come quello di Marcon, attento alla musicalità di ogni nota e pausa, capace di esaltare la vitalità incredibile di queste pagine in una ricchezza di dinamiche che spinge l'intervento strumentale in senso vocale, dosando articolazione, accenti, appoggio della frase musicale, trovando nel passaggio fra forti contrasti una chiave di lettura rivelatrice, nella bilancia di archi e fiati adeguati orizzonti strumentali, compresi quelli descritti dai recitativi, valorizzati come non mai da sapienti e ricchissimi interventi al fortepiano.

Opera vocalmente impervia, con momenti toccanti in perfetto rapporto con altri virtuosisticamente spaventosi per la tecnica richiesta, L'Olimpiade esige un cast di assoluta levatura. Brillava Patrizia Ciofi (Aristea), unica punta di diamante: bellezza timbrica, forza, agilità e fine musicalità le permettevano di affrontare con convinzione passi che hanno fatto tremare il pubblico, esploso in applausi a scena aperta anche nella difficilissima aria con oboe concertante del II Atto, in cui abbiamo ammirato la partecipazione straordinaria dell'oboista Omar Zoboli. Convincenti e ben preparate Anna Bonitatibus (Megcle) e Laura Brioli (Licida), intensi Aminta di Bruno Lazzaretti e Argene di Ermonela Jaho. Meno interessante Luigi Petroni (Clistene), calore lirico di poca agilità e ridotta tenuta nelle coloriture. Elegante la regia di geometrie umane di Dominique Poulange.
Lunghi applausi e ovazioni.

 


Dicembre 2001

La nostra recensione

Grande successo per "L'Olimpiade"

di Alessandra Morresi

Di fronte ad un'opera come "L'Olimpiade" è sempre interessante vedere le modalità con cui il regista e lo scenografo hanno cercato di rendere digeribili le are e i templi di Metastasio, quella Grecia antica, insomma, ripescata con il desiderio di riportare in vita un'età dell'oro ormai irraggiungibile, ricca di grazia e armonia, di eroi e di grandi passioni. La scelta di questa sera è stata fatta con molta discrezione ed eleganza: una riproduzione in bianco e nero di un giardino neoclassico tardo settecentesco, arredato con colonne corinzie e balaustre, decora delle tele bianche disposte a quadrato per definire il perimetro, entro cui l'azione si svolge su di una piattaforma di marmo. Gli indumenti, estremamente curati in quei colori poco saturi, già fanno presagire tuttavia il primo ottocento, il neoclassicismo di questa "veduta" è infatti tinto dai fremiti del sentimento che la musica ben sottolinea nonostante le forti reminiscenze barocche. Ancora recitativi secchi, dunque, e numeri chiusi la cui rigida struttura però comincia a cedere, acquisendo un'articolazione nuova, più espressiva che può far anche perdere il filo del discorso: la musica si fa più discontinua, presenta frequenti rotture nell'andamento, quando segue le passioni. Certo, il virtuosismo vocale rimane comunque il protagonista, e quest'opera di vocalizzi ne ha proprio tanti, basti pensare alle 150 note che reggono quello "sta" di Megacle: in questi casi il tempo del teatro non può che fermarsi, come imprigionato in un quadro bellissimo fatto di sagome in posa che stanno a guardare la prima voce. La regia ha dunque riprodotto con compostezza i suggerimenti del libretto e della partitura, confermando, anche con le traiettorie degli spostamenti, le forti simmetrie che regolano i rapporti tra i personaggi (il perimetro quadrato ha indubbiamente rafforzato questa lettura).

Assolutamente all'altezza delle difficoltà della partitura le voci del cast, protagonista indiscussa della serata è stata Patrizia Ciofi che con autorità e grande presenza scenica ha dominato il ruolo di Aristea, notevole la sua tecnica vocale, ovazioni quindi per lei, e per il suo amante sulla scena: Megacle, intepretato da Anna Bonitatibus, Sempre energica e fresca l'orchestra diretta con precisione da Andrea Marcon, ottimo anche dal punto di vista della concertazione. Uno spettacolo in definitiva molto ben riuscito che il pubblico ha accolto con grande entusiasmo.

 


sabato 29 dicembre 2001

A VENEZIA. Cimarosa al Teatro Malibran
Olimpiade elegante ma fredda
E l'Italia perse il treno del primato musicale

di DINO VILLATICO

VENEZIA. L'anno scorso Andrea Marcon, direttore dell'Orchestra Barocca di Venezia, nella sala tiepolesca della Scuola di San Giovanni Evangelista, allestì un'edizione entusiasmante del "Siroe" di Handel. Adesso ritenta il successo, ma al riaperto Teatro Malibran, con l'Olimpiade di Domenico Cimarosa.

Ma Cimarosa non è Handel, e nemmeno Mozart, le cui "Nozze di Figaro" andarono in scena a Vienna l'anno dopo dell'opera di Cimarosa, rappresentata a Vicenza nel 1784. La musica è bella, ma potrebbe appartenere a qualsiasi soggetto, adattarsi a qualsiasi personaggio. Troppo genericamente bella, anzi, per tratteggiare un carattere, circoscrivere un affetto, rappresentare una situazione. E Metastasio inoltre aveva scritto il dramma 50 anni prima, per convenzioni teatrali diverse.

Anche Mozart, con "La clemenza di Tito", ripesca un dramma metastasiano: ma lo reinventa. Cimarosa s'accontenta di adattarlo al gusto cambiato. E "Il matrimonio segreto" è ancora di là da venire. La proposta della Fenice è comunque interessante: se non altro ci fa capire l'abisso che separa il melodramma italiano degli italiani da quello dei compositori tedeschi: Handel, Hasse (il compositore preferito dal Metastasio), Gluck, Mozart.

È in questo giro d'epoca che l'Italia perde il treno del primato musicale europeo. Il primato culturale l'aveva già perso due secoli prima. Lo spettacolo veneziano, impostato da Dominique Poulange, con le bellissime scene di Francesco Zito, è elegante, ma freddo. Marcon sfoggia tutto il suo repertorio di fraseggi e di respiri ma non può far diventare sublime una musica mediocre. Gli interpreti sono bravi ed esperti di belcanto settecentesco, ma assolutamente glaciali. Si distacca appena l'Aristea di Patrizia Ciofi. Bene comunque il Clistène (e non Clìstene! Anche perché fa rima con Argène: ma non è il solo errore di dizione, si è sentito anche un Megàra al posto del corretto Mégara) di Luigi Petroni.

Completano il cast Anna Bonitatibus, Megacle; Laura Brioli, Licida; Ermonela Jaho, Argene; Bruno Lazzaretti, Aminta. Successo per tutti, calorosissimo per Patrizia Ciofi.

 

Amadeus
MARZO 2002

VENEZIA L'Olimpiade
Cimarosa fra raffinatezze e belcantismo

Nell’anno delle celebrazioni verdiane e belliniane era forse fatale che quella di Domenico Cimarosa, morto a Venezia neanche cinquantenne appunto due secoli fa, restasse in ombra; tuttavia la negligenza dei teatri italiani nel programmare opere del compositore campano è stata anche superiore alle aspettative: solo a Napoli e a dicembre a Venezia ci si è ricordati di lui, e con lavori che non aggiungono poi granché alla sua immagine. Buona cosa comunque conoscere anche quest’ennesima e non trascurabile intonazione dell’Olimpiade, il vecchio e glorioso dramma di Metastasio (1733) che Cimarosa riprese a sua volta per l’inaugurazione del Teatro Eretenio di Vicenza nel 1784, e che è tornato alla luce sul palcoscenico del Teatro Malibran di Venezia.

La proposta, allettante sulla carta, alla prova d’ascolto delude un poco. Cimarosa accetta con troppa docilità un libretto che l’ignoto poeta raffazzonatore ha ricavato diligentemente dall’originale con tutti gli interventi divenuti abituali per adattarlo ai tempi e alla bisogna - contrazione della trama e riduzione del numero della arie, onde secondare l’espansione di strutture musicali sempre più ampie e complesse; assunzione a protagonista della coppia Megacle-Aristea, vittime degli altrui egoismi eppre pronti al sacrificio di sé (il primo per amicizia e senso dell’onore, la seconda per amor filiale), per esaltare l’elemento patetico-sentimentale, più vicino al gusto del nuovo pubblico "borghese", a scapito degli assunti etico-pedagogici dell’originale metastasiano - ma senza che alcuna originale intuizione vada mai a intaccare i presupposti drammaturgici dell’opera seria, centrati sulla vetusta dialettica recitativo-aria, che già da anni Jommelli e Traetta avevano invece sottoposto a ben altre tensioni e lacerazioni. Qui tutto procede come da copione e, tolto il duetto di fine atto primo, che pure è di prammatica, l’unico ensemble (il sestetto finale, peraltro musicalmente magistrale e persino in parte "drammatizzato" dall’inserimento di un breve recitativo centrale) nasce dalla necessità di sopperire alla mancanza del coro, e comunque arriva solo alla fine dell’opera, a conti fatti cioè. All’interno di questa griglia preconfezionata Cimarosa si muove da par suo, sfoggiando densità strumentale e raffinatezze armoniche e coloristiche che gli consentono un’ammirevole duttilità di trapassi emotivi nelle arie e nei recitativi accompagnati, purtroppo non sostenuta da un’invenzione melodica più che generica, e spesso appesantita (anziché esaltata) dall’ossequio dovuto alle esigenze belcantistiche.

Lo spettacolo ideato da Dominique Poulange (regista) e Francesco Zito (scenografo e costumista) mette come fra virgolette il dramma metastasiano, inscrivendolo in un contenitore dalle bianche pareti di tela, su cui pitture monocromatiche suggeriscono discretamente sfondi naturali e interni classicheggianti: soluzione non nuova forse, ma elegante ed efficace per questo tipo di dramma d’intrigo, in cui tuttavia i personaggi, nei loro bei costumi vagamente settecenteschi, si muovono oscillando con poca coerenza fra la recitazione realistica da opera buffa e la gestualità stilizzata da opera seria, con risultati a volte confusi o fuorvianti. L’esecuzione musicale, guidata con piglio anche troppo energico e scarsa propensione alle sfumature da Andrea Marcon, a capo della discreta Orchestra Barocca di Venezia, ha avuto i suoi punti di forza nelle due ottime protagoniste, la stellare Patrizia Ciofi (Aristea) e la sensibile Anna Bonitatibus (Megacle), che hanno superato con convincente aplomb vocale e interpretativo le aspre difficoltà delle loro parti, e nelle buone prove di Luigi Petroni (Clistene) e Ermonela Jaho (Argene).

Gildo Salerno