All'Opera "Un ballo in maschera" di Alfredo Gasponi ROMA - «Ancora una volta, perché mi piace da morire», esclamò Toscanini durante una prova dopo aver eseguito l'introduzione al second'atto di Un ballo in maschera. Ma sono tanti i pezzi dell'opera che vorresti risentire subito: dalla vivacissima stretta corale Ogni cura si doni al diletto all'impressionante Ecco l'orrido campo all'ironico Ve' se di notte. Il Ballo ti prende col suo meccanismo di travestimenti, a cominciare dai momenti tragici camuffati da commedia, e con l'eleganza della musica: c'è chi l'ha definita, a ragione, l'opera più mozartiana di Verdi. All'Opera di Roma, città che ne ospitò il debutto nel 1859, il "melodramma più melodrammatico del mondo" è tornato dopo 16 anni di assenza in una buona esecuzione diretta da Donato Renzetti, anche se non sempre confortata da un'interpretazione convincente. Per esempio l'inizio del citato quartetto Ve' se di notte (sembra un eco delle maldicenze, a Busseto, sul legame di Verdi con la Strepponi quando non erano ancora sposati) poteva essere più beffardo, più sarcastico. Ciò detto, Renzetti dirige con equilibrio, senso del teatro e tempi giusti, ottenendo belle sonorità dal coro. La prestazione dell'orchestra si riassume nella bravura dei singoli, corno inglese, flauto, tromba. Il soprano Ines Salazar, Amelia, ha comunicativa ed è corretta vocalmente: ma il suo canto ha poco stile, il fraseggio non è sempre omogeneo e gli acuti sicuri ma talvolta aspri. Una bella sorpresa per il pubblico romano il tenore Salvatore Licitra, che sfoggia ottima tecnica, voce grande, linea nobile e dizione chiara, anche se difetta un po' di pathos. Emissioni spesso troppo aperte appiattiscono il canto, pur potente, del baritono Alexandru Agache, Renato. Brioso e pungente il paggio di Annamaria Dall'Oste; efficace Elisabetta Fiorillo nel ruolo della fosca Ulrica. Gustosamente oleografiche le scene di Mauro Carosi: nel palazzo di Riccardo a Boston, eleganti arazzi con carte geografiche e planisferi; le immagini di navi sembrano alludere alla nostalgia per la patria, l'Inghilterra. Di normale tradizione la regia di Alberto Fassini. Al termine applausi per tutti con punte per Licitra. Nell'intervallo Paolo Bregni ha ricevuto il premio "Samaritani" per le scene di Le jongleur de Notre Dame di Massenet. Una curiosità: in un giornale distribuito all'entrata, un articolo su Verdi di Vittorio Emanuele di Savoia. |
Un Ballo in grigio di Mauro Mariani Bene Il Trovatore, benissimo I due Foscari, soltanto benino Un ballo in maschera: l'andamento delle celebrazioni verdiane del 2001 a Roma conferma che Un ballo in maschera non può essere preso alla leggera, perché evidenzia spietatamente i limiti d'un direttore di routine, d'una messa in scena genericamente sfarzosa e d'un cast messo insieme alla rinfusa. Donato Renzetti si limitava a governare palcoscenico e buca con apprezzabile pulizia, ma senza proccuparsi di evidenziare un colore o di scavare un dettaglio nell'orchestra, d'intessere un dialogo o di offrire un suggerimento ai cantanti: l'unica linea interpretativa poteva essere ravvisata in una lentezza che ingrigiva tutto. Avendo a disposizione la Boston grandiosa come Versailles di Mauro Carosi (ma non sarebbe meglio ignorare ormai la censura papalina e ripristinare l'ambientazione nella Stoccolma dell'ultimo scorcio del '700?) e i costumi dalle raffinate gradazioni cromatiche di Odette Nicoletti, Alberto Fassini deve aver pensato che il più era fatto e quindi si è limitato a gestire i movimenti fondamentali dei protagonisti, a disporre un paio di quadri viventi di bell'effetto e a inventare qualche controscena bozzettisica superflua quando non fastidiosa, perdendo di vista l'essenziale. Se si attendeva dai cantanti quel barlume di proposta d'interpretazione che non veniva da direttore e regista, si sbagliava indirizzo. Salvatore Licitra ha un timbro di straordinaria bellezza e una tecnica non raffinatissima ma abbastanza salda per affrontare senza affanno un ruolo complesso e insidioso come Riccardo, ma quanto a interpretazione, neanche a parlarne. Non un brivido veniva dall'Ulrica (per altro ben cantata) di Elisabetta Fiorillo. A posto l'Oscar di Annamaria Dell'Oste. Bene i ruoli minori, anzi benissimo il Silvano di Roberto Accurso e il Tom di Enrico Turco. Invece Renato era svilito dalla voce nasale e della linea di canto uniforme di Alexandru Agache. Si è lasciata per ultima Ines Salazar (Amelia) perché è il caso più complesso: è dimagrita ed è ancora più bella, ma purtroppo anche la voce sembra dimagrita o, peggio, consumata; il suo canto è tutto un laborioso tentativo di coprire falle, diseguaglianze e asprezze, eppure riesce a far dimenticare i suoi problemi grazie al temperamento che vibra in ogni gesto e in ogni nota. Tirando le somme, al di là dei pregi e dei difetti dei singoli, il vero problema di questo Ballo in maschera è che ognuno sembra andare per la sua strada. La maggior parte del pubblico è comunque soddisfatta e applaude, ma senza entusiasmo. 14 dicembre 2001 Un ballo in maschera
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