L'insostenibile leggerezza dell'essere La nostra recensione. Hoffmanstahl era del tutto convinto che questo materiale avesse tutte le carte in regola per diventare "la più bella di tutte le opere" lasciandosi trasportare in sublimi dichiarazioni non tipiche del suo carattere. Nella "Frau ohne Schatten" assistiamo alla completa fusione del ruolo del poeta e del librettista. Si era comunque affidato ottimisticamente al potenziale simbolico della musica, sopravvalutando la sua capacità di trasportare simboli. Strauss è del parere che questa sia " l’ultima opera romantica", con tutta la responsabilità storica che ne deriva.Questa favola frutto di fusione da diversi ambiti culturali ci presenta una donna lacerata tra il rigido mondo degli spiriti che l’ha generata e l’imperfetto mondo degli esseri umani. L’incapacità di "gettare un’ ombra", cioè di procreare, la costringe a lasciare il suo status di creatura incorrotta e di scendere tra i mortali nella famiglia del tintore Barak. La nutrice servirà da mediatrice per lo scambio con la moglie del tintore che porterà fecondità. Non cediamo a tentazioni sociologiche o psicanalitiche per sondare le profonità di quest’opera. Ci accontentiamo della constatazione che questa volta la redenzione è nelle mani di una donna. Ma fin dall’inizio le note funeree ci indicano che si tratta di una situazione sacrificale, che senza rinuncia non si ottiene nulla. Il regista Christof Nel e lo scenografo Jens Kilian, che già ci hanno regalato allestimenti preziosi di Butterfly e Salomé, hanno avuto il buon gusto di non sovraccaricare il loro lavoro di ulteriori piani simbolici, consci che lo spettatore già se la deve cavare con Hoffmanstahl e Strauss. Un velo di tristezza sembra essere sospeso per tutto il tempo della rappresentazione sopra l’agire dei protagonisti, inafferrabile, ma presente. Padroneggia la scena un grande cubo polifunzionale dai toni grigi del cemento scrostato. Scarsi gli elementi scenici, spesso sproporzionati, che ci trasportano nel mondo di Alice e delle sue inquietanti meraviglie. L’imperatrice (trascinante voce drammatica di Silvana Dussmann) veste per metà sportiva e per metà di un’ eleganza fuori del tempo. L’accompagna una nutrice (convincente nel suo ruolo subdolo Julia Juon) dal freddo comportamento da governante inglese, fino all’ultimo convinta dell’ intaccabilità dei suoi principi. Il Kaiser "cacciatore e amante, e niente più" come lo definisce lei stessa, in realtà non fa molto per cambiare la sua condizione. Barak il tintore porta con rassegnazione la croce di un amore apparentemente non ricambiato della moglie. Reminiscenze della fase di nascita dell’opera, pensata come melodramma popolare, i tre fratelli di Barak, che per rispetto al valore simbolico vanno riportati come "quello con un braccio", "quello con un occhio" e il "gobbo". Come figure prese in prestito dalla commedia dell’arte, ma dopo un bagno nel pessimismo teutonico, diffondono sarcasmo al solo apparire. Una creazione delicatissima è la figura del falco cui Britta Stallmeister presta una voce suadente. Nei momenti critici sottolineati da una musica vertiginosa il cubo viene fatto girare velocemente, come quando la nutrice regala alla moglie del tintore un diadema, simbolo di potere, che scatena in lei una tempesta di sentimenti contrastanti. Ma si tratta davvero di una favola se la nutrice con le sue capacità da imbonitrice spiega alla moglie del tintore che il segreto sta sempre nel rapporto tra merce in vendita e prezzo?. Lo stordimento dell’imperatore di fronte alla casa del falco nel secondo atto è reso magnificamente dalle note struggenti del violoncello: una delle scene più unitarie e riuscite di questa regia non sempre fluida. Come le figure degli scacchi, senza nome proprio, il destino (o Kelkobad, il re degli spiriti?) muove questi personaggi. Senza pietà si sacrifica chi ha creduto fino all’ultimo di fare il suo dovere. E quando la nutrice viene scacciata ci viene rivelata - attraverso la musica - la natura erotica del suo rapporto di dipendenza con Kelkobad. Non ci si può sottrarre alla potenza evocativa ed erotica della musica di Strauss. Il direttore Sebastian Weigle non risparmia agli spettatori le stazioni di dolore cui sono sottoposti i personaggi de "La donna senz’ombra". Impegnato per un anno alla partitura, ha reso sublimamente la molteplicità timbrica con cui Strass ha definito sia il mondo umano che quello degli spiriti. Quattro ore di "sofferenza" e di sentimenti fortemente contrastanti hanno reso questa serata indimenticabile grazie anche alla presenza di un cast canoro internazionale, quasi tutti passati da Vienna, Milano e Berlino. Sarebbe imperdonabile dimenticarsi di citare il coro dell’opera di Francoforte con il suo ruolo determinante nel completare il successo dell’allestimento, soprattutto in quei momenti dove i tutti coinvolgono magneticamente il pubblico. Ci permettiamo di affermare che il finale è del tutto antiwagneriano. Le coppie riunite dopo il percorso iniziatico caratterizzato dal dolore si ritrovano per affermare la vita e non in unione mistica nella morte. Patrizia Frada Die Frau ohne Schatten (La donna senz’ombra) libretto di Hugo von Hofmannsthal prima rappresentazione: Vienna, Opera, 10 ottobre 1919 Teatro dell’Opera, Francoforte Interpreti: L’imperatore (T): Stephen O’Mara; L’ imperatrice (S): Silvana Dussmann; La nutrice (Ms): Julia Juon; Barak il tintore (Bar): Terje Stensvold; La sua donna (S): Elisabeth Connell; Messaggero degli spiriti (Bar): Gerd Grochowski; L’ orbo (B): Franz Mayer; Il monco (B): Soon Wong Kang; Il gobbo (T): Hans-Jürgen Lazar Direttore: Sebastian Weigle Regia: Christof Nel 4 febbraio 2003 |
Püppchen im Rüschenkleid trifft lebenden Putzlappen: Christoph Nel inszeniert in Frankfurt "Die Frau ohne Schatten" Von JULIA SPINOLA Prinzessin Salome stapfte vor vier Jahren als ungebärdige Göre in Faltenröckchen, gräßlich pinkfarbener Bluse und klobigen Stiefeln über die Bühne der Frankfurter Oper, lieferte auf dem Billardtisch einen konvulsivisch-ungrazilen Schleiertanz ab und schockierte als Opfer des Kindsmißbrauchs. Nach seiner spektakulären Neudeutung des Strauss-Renners wagt sich Christoph Nel am selben Haus nun an die vierzehn Jahre später entstandene Riesenpartitur der "Frau ohne Schatten" - jenes von vornherein als "Hauptwerk" konzipierte vierte Opernprojekt von Hoffmansthal und Strauss, das alles auf einmal will: Mythos, Märchen und fernöstlichen Geisterspuk, symbolistische Parabel und freudianische Seelenstudie, eine Prüfungsthematik wie in der "Zauberflöte", Anspielungen auf Goethes "Märchen" und die Motivik des Schattenverkaufs. "Die bekannten Entgleisungen in der Behandlung des Textes manifestieren nur sichtbar das Unheil im Inneren der Musik", lästerte Adorno über die gigantomanische Komposition. Zu Unrecht, denn im beinahe hasardeurhaften Versuch, stilistisch heterogenste Materialmassen aufeinanderprallen zu lassen und das Auseinanderstrebende zugleich mit großem symphonischen Atem zu integrieren, erscheint "Die Frau ohne Schatten" als eines der spannendsten Werke von Strauss. Dem Kammerorchester der "Ariadne" stehen massive Blech- und Tutti-Ballungen gegenüber; exotisches Geglitzer und Geklingel mischt sich mit der scharf dissonanten Klangwelt der "Elektra"; zur Terzenseligkeit des "Rosenkavaliers" gesellen sich Salomes Naturlaute, Echowirkungen, virtuell klingende Fernchöre der Ungeborenenen und das markerweichende Wehgeschrei eines roten Falken. Kaum weniger dicht, vielschichtig und symbolbefrachtet als die Partitur erscheint die Geschichte von der Kaiserin, die, halb dem Menschen-, halb dem Geisterreich entstammend, keinen Schatten werfen kann. Binnen drei Tagen, so will es ihr Vater, der Geisterkönig Keibobad, muß sie einen solchen erringen, sonst verwandle sich der Kaiser in Stein. So zieht sie mit ihrem Astralleib aus, um einer echten Menschenfrau ihren Schatten und damit ihre Fruchtbarkeit abzukaufen. Das Dilemma, vor das sie von ihrem Vater gestellt wird - entweder den eigenen Ehemann sterben zu lassen oder ein Menschenpaar ins Unglück zu stürzen -, erweist sich am Ende jedoch als eine Prüfung, die sie zur Autonomie zwingen soll. Dem Schatten der Menschenfrau entsagend, wird sie von ihrem Fluch erlöst. Wie schon in seiner "Salome"-Deutung, so sind es auch hier wieder die Abgründe weiblicher Psychopathologien, die Nel besonders interessieren. So wirkt die Kaiserin (mit imponierender sopranistischer Stimmgewalt: Silvana Dussmann) jetzt wie eine etwas bravere Variante der renitenten Salome-Figur. Auch dieses Püppchen im weißen Rüschenkleid steckt noch in den Kinderstiefeln, ist am Rockzipfel seiner überfürsorglichen Amme, die stimmlich wie darstellerisch glänzend charakterisiert wird von Julia Juon, zwar ältlich, aber nie erwachsen geworden. Nel betont zudem die Parallelen zur Färbersfrau (leuchtkräftig und mit bewundernswürdigem Durchhaltevermögen gesungen von Elizabeth Connell), die in der Entfaltung ihrer Weiblichkeit nicht minder verhindert erscheint, wenn auch auf andere Weise. Während die Kaiserin als bloßes Kunstprodukt wie eine Porzellanfigur erstarrt, wirft sich die Färberin in ihrem zeltähnlichen Haushaltskleid restlos in das Dasein eines lebenden Putzlappens. Beide Sphären sind mit sparsamen Mitteln auch optisch klar voneinander geschieden. Jens Kilian hat als Einheitsbühnenbild einen riesigen weißen Kasten entworfen, eine Mischung aus Plattenbau und Bunker, der nach einer Seite hin offen ist. Auf der Drehbühne kreist er um die eigene Achse und erlaubt so die Aufteilung des Geschehens in ein hermetisch wirkendes Innen der Kaiserinnensphäre und ein kasernenhofartiges Außen des schäbig-zweckverhafteten Alltagslebens der Färber. Die Symboltiefe des Stücks versucht die Inszenierung in albtraumartig verrätselten Bildern szenisch einzufangen. Deren Motive erinnern bisweilen an die bedrückende Atmosphäre mancher Zeichnungen von Helnwein: die grausig auf dem Bett der Kaiserin herumlungernde Falkenfigur etwa, mit ihrer langen, gebogenen Schnabelnase, die surreal kahlen Räume, das klinisch von oben einfallende Licht sowie allerlei über die Bühne schleichende, zwielichtige Statistengestalten mit gipsernen Tiermasken. So intensiv diese Suggestionen auch sind, wirken sie in ihrer kaum entschlüsselbaren Enigmatik im Laufe der knappe vier Stunden dauernden Aufführung doch zunehmend unverbindlicher und dekorativer. Ein wenig mehr Deutung könnte das Werk schon vertragen, denn nur in Psychologie und Märchenbilder läßt es sich kaum auflösen. Aus der bei Strauss und Hoffmansthal thematisierten Spaltung von Ideal und Leben etwa ließe sich noch mehr entwickeln. So reichte der Erfolg des Abends kaum an jenen der "Salome" heran, zumal das Frankfurter Museumsorchester nicht in bester Verfassung war. Sebastian Weigle bemühte sich um motivische Prägnanz und dramatischen Fluß der orchesterpolyphonen Massen. Es gelang ihm jedoch kaum, dem Gesamtklang so viel Tiefenschärfe zu verleihen, wie es nötig gewesen wäre, um die verschiedenen Materialschichten der Partitur profiliert auffächern zu können. Stimmlich wurde Respektables geleistet. In tragenden Partien waren neben den Erwähnten noch Stephen O'Mara als etwas blasser Kaiser und Terje Stensvold als melodiöser Färber zu hören. URL: http://www.faz.net/IN/Intemplates/faznet/default.asp?tpl=faz/content.asp&rub={2D82590A-A70E-4F9C-BABB-B2161EE25365}&doc={3DB602DD-62B8-4530-9640-914981A5482C} |
Christof Nel inszeniert Richard Strauss' "Die Frau ohne Schatten" an der Oper Frankfurt Im Karussell von Traum und Wahn Von Andreas Bomba Im Jahre 1942 brachte Richard Strauss Capriccio heraus, ein Konversationsstück über den alten Disput, ob auf dem Theater dem Wort oder der Musik der Vorrang gebühre. Ein Vierteljahrhundert zuvor hatte sich der antiken-, bibel- und barockerprobte Erfolgskomponist einem bizarren Märchenspiel gewidmet. Die 1918 fertiggestellte und im Folgejahr uraufgeführte Frau ohne Schatten behandelt eine verschrobene Mixtur von Themen wie Liebe, Prüfung, Elternschaft, gut gepolstert in den mythischen Tiefen von Traum und Wahn, Zwang und Erlösung - Strauss' und Hofmannsthals Reflex der Psychoanalyse. Beiden Stücken gemeinsam ist die Resistenz des (ansonsten keineswegs realitätsfernen) Komponisten gegen seine von Krieg, Tod, Zerstörung und Terror geprägte Umwelt. Mögliche Zweifel indiziert allenfalls die Musik durch den Mangel an Fortschritt. Kompositorisch faßt Strauss in der "Schweigsamen Frau" alle Errungenschaften der Vorgängerwerke zusammen, verschanzt sich deutlich hinter der Ästhetik Richard Wagners, wirkt in seinen Klangwelten jedoch weniger originell als etwa Franz Schreker. Dessen ebenfalls erlösungsträchtige Opern Die Schatzgräber und Das Spielwerk, waren, wie zum Vergleich, in dieser Spielzeit in Frankfurt und dem benachbarten Darmstadt zu sehen. Ein vom Dramaturgen notiertes Gespräch mit Christof Nel, dem Regisseur der Frankfurter Neuproduktion, über "Die Rede vom Schatten" endet mit dem Verweis auf den eine gesellschaftliche Funktion erfüllenden Körper der Frau: "Die Mutterschaft als Erlösung eines sanktionierten Daseinsgesetzes". Starker Tobak selbst für Nicht-Feministen, zumal Kinderlosigkeit heute nicht mehr philosophische Diskurse auslöst, sondern als Konsequenz der Freizeitgesellschaft beschrieben und allenfalls von Rentenversicherungsträgern beklagt wird. Zum Glück strapaziert Nel diese obskure - vor allem im dritten Akt manifeste - Ideologie nicht weiter, sondern befasst sich mit einer allgemeineren Ebene dieser Oper. Schatten ist die Gegenposition zum Licht, wie der Tod die Antithese zum Leben. Die wirkliche Welt der Personen und die imaginäre Welt der Schatten bedingen sich gegenseitig. Immer wieder schleichen, von den Personen nicht beachtete, gesichtslose Schattengestalten an den Wänden des grauen Betoncontainers entlang, dem bunkerartig die Bühne (Jens Kilian) beherrschenden Spielort. Maskierte locken und drohen aus dem Halbdunkel, übernehmen Boten- und Verbindungsdienste zwischen beiden Sphären. Im Inneren bietet der Raum längst keine blühende Märchenwelt mehr. Einschusslöcher zeugen von Artillerieangriffen. Aber nicht sie haben diese Bastion libidinöser Behaglichkeit, diese Spielwiese des Kaisers mit seiner der Geisterwelt entrissenen Gemahlin zerstört. Vielmehr leidet der Platz an innerer Auszehrung. Das aus dem Rausch erwachte Liebespaar sieht sich mit der Frage des Überlebens konfrontiert. Gefahr droht, wenn Liebe und Leben nicht binnen dreier Tage durch die Gewinnung eines weiblichen Schattens vollendet werden. Der Kaiser geht auf die Jagd (sucht er schon ein neues Opfer?), die Kaiserin quält sich durch eine Schranktür, eine Metapher des Abenteuers, die später überlebensgroß wiederkehren wird, vom Ausweg zum Drohpotenzial mutiert. Das Karussell, die Spirale sich steigernder Wahn- und Traumzustände kommt in Gang. Draußen ist die Welt, wie die rotierende Drehbühne allseitig zeigt, keineswegs freier. Der einfältige Barak, seine Frau und seine Brüder, streben nicht weg von den kahlen Wänden, sondern suchen Rückhalt, kleben geradezu an ihnen auf engstem Raum. Weiß und Schwarz, die Zustände von Licht und Schatten, ergänzt Barak - er ist ja Färber - durch rote Laken, die er als Zeichen des (ungeborenen) Lebens aus der Waschmaschine zieht, um das Grau der Wände notdürftig zu drapieren. In Rot verhüllt (Kostüme: Ilse Welter) singt der gespenstische Chor der Ungeborenen. Der Gegensatz von Innen- und Außenwelt, die Unterschiede von Zuständen, Traum, Wahn und Realität ebnen sich endgültig ein. Der zweite Akt ist ein bild-, detail und anspielungsreiches Crescendo technisch kühn realisierter Visionen, seltsamer Erscheinungen und dämonischer Ängste. Am Ende des dritten Aktes schließlich überschattet eine gar nicht beteiligte Person die Szenerie: Keikobad, der Geistervater der Kaiserin. Vor diesem Hintergrund wirkt die Lösung plötzlich und unmotiviert: Eine dramatisch zugespitzte Wendung ins Idealistische, ein Akt der Humanität überwindet oder unterläuft diesen Komplex. Baraks Frau behält ihren Schatten und ihr Leben, scheint aber ihren Mann zu verlieren. Die Kaiserin hingegen rettet sich ins Reich der Wirklichkeit und holt den fast versteinerten Gatten ins Leben zurück. Musikalisch gelingt diese Produktion eindrucksvoll. Unter Leitung von Sebastian Weigle entfesselt das Museumsorchester die Klangwelten, ohne die Sänger zum Forcieren zu zwingen. Die Verständlichkeit fördert die deutsche Übertitelung, bei einer deutschsprachigen Oper akzeptabler Tribut an die Internationalität des Ensembles und das Problem der Klangbalance. Die Musik bleibt transparent, die motivische Arbeit deutlich, die Klänge werden sorgfältig registriert. Immer wieder leuchten kammermusikalische Strukturen und lupenreich intonierte Instrumentalsoli heraus. Präzise agiert auch der meist aus dem Off singende Chor. Stimmlich bestmöglich besetzt die drei Frauenrollen: die bis zum Wahn aufgedrehte, hochdramatische Kaiserin Silvana Dussmanns, Julia Juons Amme, die aus der kittelgeschürzten Drahtzieherin gefährliches Potential entwickelt, Elizabeth Connell als resolute, korpulent-derbe und doch sensible Färbersfrau. Der Rechtschaffenheit ihres Mannes Barak, der die Ware selbst zum Markt trägt, um den Esel zu sparen, gibt Terje Stensvold vergleichsweise nobles Profil. Einzig dem Kaiser (Stephen O'Mara) wäre mehr Kontur zu gönnen, heldentenorale Kraft, ohnehin eine Seltenheit bei Strauss. Auch die kleineren Partien (Bote, Baraks Brüder, Stimme des Falken) sind prägnant besetzt. Das Premierenpublikum nahm zwischendurch mehrheitlich die Landtagswahlergebnisse beifällig zur Kenntnis und äußerte sich der Regie gegenüber mit deutlichem Missfallen. • Weitere Vorstellungen am 5., 14., 20. und 23. Februar jeweils um 18 Uhr; Karten-Tel. 069 / 1340-400. [ document info ] Dokument erstellt am 03.02.2003 um 21:24:01 Uhr Erscheinungsdatum 04.02.2003 URL: http://www.fr-aktuell.de/ressorts/kultur_und_medien/kultur_frankfurt/?cnt=113170 |
Richard Strauss" "Frau ohne Schatten" hatte an der Oper Frankfurt eine zumindest in musikalischer Hinsicht fesselnde Premiere. Erlösung auf der Drehscheibe Von Michael Dellith Die Regisseure taten sich schon immer schwer mit diesem "Schmerzenskind" von Richard Strauss und dessen Librettisten Hugo von Hofmannsthal. Erst das Regietheater der 60er Jahre machte sich daran, das Dickicht an Symbolen in diesem rätselhaften Stück zu entwirren. So hob Harry Kupfer in seiner Berliner Inszenierung von 1971 auf die Vorbilder der Oper in den Zauberpossen des Wiener Volkstheaters ab, während sich 15 Jahre später John Dew in Bielefeld von der Fruchtbarkeitsmetaphorik der "Frau ohne Schatten" inspirieren ließ und die Handlung in einen Kreißsaal verlegte. Götz Friedrich beließ es 1987 in Stuttgart bei der Entstehungszeit der Oper während des Ersten Weltkriegs. Die Prüfungsrituale, die so sehr an Mozarts "Zauberflöte" erinnern, verleiteten schließlich Kirsten Herms 1996 in Kiel dazu, die Oper in einem Schützengraben spielen zulassen. Und Christof Nel? Der nicht unumstrittene Frankfurter "Hausregisseur", der mit seinem Team, Jens Kilian (Bühnenbild) und Ilse Welter (Kostüme), in jüngster Zeit die "Salome" (1999) und Puccinis "Madame Butterfly" (2001) in Szene gesetzt hat, entschied sich für einen großen grauen, nach einer Seite hin offenen Beton-Quader, der fast unablässig auf der Drehscheibe rotiert – wahrlich kein neuer Anblick für Frankfurter Opernbesucher. Für den Regisseur freilich ist ein solcher Quader recht praktisch, bietet er doch Raum für alles und nichts. Nel nutzt diese karge Ausstattung für gelegentlich in der Bewegung erstarrte surrealistische Szenenbilder mit einer Vielzahl an Symbolen (rot gefärbte Laken, gelbe Pfeile, Masken, ein riesiger Spiegelsplitter und Ähnliches), die dem Zuhörer den Weg durch das Labyrinth der Traumwelten weisen sollen. Nels Interesse gilt dem tiefenpsychologischen Kern dieser komplexen romantischen Märchenoper. Doch beim Knacken dieser harten Nuss bleibt auch so mancher kryptische Splitter zurück. Da erweist sich die Einblendung des Operntextes als hilfreich bei der Orientierung. Sinnvoll erscheint die Trennung von hermetisch abgeschlossener Geisterwelt innerhalb des Kubus und der Menschenwelt, die sich außen herum abspielt. Nur ein paar Luken und Schrank-Schleusen gestatten eine Diffusion von einer Sphäre in die andere. Dass Nel die Handlung nicht einer konkreten Epoche zuordnen will, wird auch an der zeitlos-modernen Kleidung und den Requisiten deutlich – ein paar Eisenbetten, Bierbänke und eine Waschmaschine genügen ihm. Zweifellos kritisch sieht Nel den Gedanken der Menschheits-Erlösung durch Verzicht ("Ich will nicht"): Am Ende sind die beiden Paare (Kaiser und Kaiserin sowie der Färber und seine Frau) zwar vereint, doch sie sind im Innern des Kubus gefangen und schauen sehnsüchtig durch die Fenster auf die irdische Außenwelt. In musikalischer Hinsicht verlangt "Die Frau ohne Schatten" von ihren Ausführenden Höchstleistungen, sowohl von den Sängern als auch von den Instrumentalisten. Sebastian Weigle, erster Kapellmeister an der Berliner Staatsoper, steuerte das konzentriert aufspielende Frankfurter Opernorchester sicher und mit steter Binnenspannung durch die üppige Partitur, verlieh dem Klang kammermusikalisch-kristalline Klarheit und farbliches Profil, aber auch den nötigen Aplomb in dynamisch aufblühenden Ensemble-Szenen, ohne dass die Sänger auf der Bühne übertönt wurden. Dort gefiel vor allem die Trias der weiblichen Protagonisten, angeführt von der wunderbaren Elizabeth Connell, die mit ihrem dramatischen Sopran der schwierigen Partie der Färbers-Frau enorme Strahlkraft verlieh. Silvana Dussmann als Kaiserin gewann immer mehr an Intensität, wie auch Julia Juon als Amme. Bei den Herren nahm Terje Stensvold (Färber) durch seinen noblen Bariton für sich ein, der den Tenor von Stephen O'Mara (Kaiser) ein klein wenig in den Schatten stellte. Nach viereinhalb Stunden gab es reichlich Beifall für Solisten, Chor und Orchester, in den sich das obligatorische Buhkonzert für die Regie mischte. |
An Nels Szene scheiden sich die Geister Von KLAUS ACKERMANN Bravos für die Helden einer komplexen Geschichte zwischen Geisterreich und Menschenwelt, fürs üppige Strauss-Orchester und den Dirigiergast Sebastian Weigle, Buhs von etwa der Hälfte Premierenpublikums fürs Inszenierungsteam um Christof Nel: Gemessen an Beifall oder Mißfallen hat die Oper Frankfurt schon ans Niveau der Zeiten eines Gielen oder Cambreling angeschlossen. Und was damals gut war, wird heute noch einmal kraftvoll pointiert. Nel spielt in Richard Strauss' Oper "Die Frau ohne Schatten" auf der Klaviatur symbolhaften Regietheaters. Dabei gibt es außer den hochemotionalen, druckvoll dargebotenen Grenzgängen der Musik kaum Märchenhaftes. Eher regiert derbe Realistik die Szene, angelegentlich ins Surreale gewandelt. Doch das reicht gerade noch für eine viereinhalbstündige Spannungskurve, die erst am Ende trotz überirdischer Klänge verflacht. Die "Frau ohne Schatten" des Tandems Hugo von Hofmannthal und Richard Strauss von 1919 ist Tochter eines Geisterfürsten, vom Kaiser in Gestalt einer Gazelle erjagt und zu seiner Frau gemacht. Doch zur Menschwerdung fehlt noch eine Schwangerschaft, jener Schatten, den sie laut ihres gestrengen Geistervaters binnen dreier Tage werfen muss, sonst versteinert ihr Gatte. Mit der Amme als trickreicher Vermittlerin, versucht sie, einer Färbersfrau diesen Schatten abzukaufen, erkennt, was sie damit für Leid über das Ehepaar bringt, und verzichtet. Sich so endgültig von ihrem Vater lossagend, erlangt sie - wie auch die Färbersleute - Erlösung. Der Schatten der Färberin wird zur Brücke über den Abgrund zwischen Geister- und Menschenwelt. Was in wenigen Sätzen erzählt ist, dafür braucht Hofmannthal -zig Zeilen (zum Glück auf einem Textband in lichter Bühnenhöhe mitzulesen), die ebenso wundersam wuchern wie die reife Musik von Richard Strauss, immer wieder in sinfonischen Zwischenspielen das Szenische unterstreichend oder weiterführend. Ob nun der geisterhafte Falkenschrei, das ungemein wärmende Violoncello-Solo, die rabenschwarzen Blechbläser oder das grelle Holzbläser-Fixativ - Straussens viele klanglichen Schichten, besonders beim Liebesbekenntnis oder in der emotionalen Krise von fiebriger Präsenz, wirkten bei Weigle, dem Gast aus Berlin, und dem überaus motivierten Frankfurter Museumsorchester in besten Händen. Da waren Magie und jene Übermächte zu spüren, denen Nel konsequent entsagte. Der hatte einen seiner typischen grauen Kästen, den hermetischen Fernseh-Containern ähnlich, auf die Bühne gestellt, die sich dauerhaft drehte, ächzte und knarzte (Ausstattung: (Jens Kilian). So angelegentlich eine Verbindung herstellend zwischen Geistern innen und dem einfachen Leben außen, mit dem die Färbersfrau hadert. Während ihr treu sorgender, erst spät aus der Fassung gebrachter Gemahl arbeitet und mit seiner buckeligen Verwandtschaft (allesamt lädiert, aber bei Stimme: Franz Mayer, Soon-Won Kang und Hans-Jürgen Lazar) feiert. Nel scheint sein Bühnenpersonal kaum zu mögen, das er schon optisch denunziert, wobei seine Kostümbildnerin Ilse Welter ungemeine Fantasie entwickelte. Der nur auf Sex und Jagd erpichte Kaiser, ein betont modischer Seifenopern-Schönling (anfangs mit heldenhaftem tenoralen Druck und Glanz, später stimmlich ein wenig abbauend: Stephen O'Mara), der sich zu Beginn wie ein ertappter Liebhaber aus dem Bett stiehlt, sucht Zuflucht bei merkwürdigen Tiermasken und Bodyguards ähnelnden Kumpanen. Denn an Männern und Maskenspuk mangelt es keineswegs, ob nun Fisch- oder Vogelkopf, Blitze aus der Hand abfeuernd. Und dabei wird noch intensiv gesungen (Choreinstudierung: Andrés Máspero). Das mag dann tiefenspsychologisch deuten, wer will. Angetan mit dem Tüll einer verhinderten Ballettdame in Kellnerinnen-Schuhen, ist an der monströsen Kaiserin eigentlich nur ihre Stimme liebenswert. Und hier entwickelt der hochdramatische, aber auch empfindungsreiche Sopran von Silvana Dussmann einen unbeugsamen Charakter. Obwohl doch keineswegs auf Kinder erpicht, ist die Färbersfrau der biedere Muttchentyp, dafür aber ebenfalls mit einem stabilen, ausdrucksfähigen Sopran: Elizabeth Connell macht den Zwiespalt ihres Bühnenlebens begreifbar. Selbst wenn sie ihren geheimen Wünschen mit dem am Seil hängenden Frauenchor nur imaginär nachgibt. Auch die Amme hat's bei Nel schwer. Ihren Geisterstatus beweist sie allenfalls, wenn sie ein Sternenmeer aus der Kittelschürze zaubert. Mit ihren Hütchen wirkt sie wie eine bigotte Engelmacherin. Dabei besitzt auch Julia Juon beachtenswerte Mezzo-Qualitäten, hier freilich eher unterkühlt. Menschlich anzurühren versteht der Bariton Terje Stensvold als Barak, der Färber, eine im Lyrischen wie im dramatischen Aufbegehren ungemein elastische Stimme, bar jedweder Forciertheit. Das Aufgebot an lässig flanierenden oder in Posen erstarrenden Mannsbildern ließ es ahnen: Im dritten Akt erscheint der Geisterfürst als überdimenionierter Schattenriss - und Nel lässt die Katze aus dem Sack: Indem sie den Schatten zurückgibt, hat sich die Kaiserin von ihrer übermächtigen Vaterfigur befreit - vielleicht sogar vom Männlichen schlechthin. Schwer zu sagen, ob das Straussens Musik hergibt mit ihren glutvollen Apotheose am Ende, wahrlich spätromantisches klangliches Herzflimmern. Da geht nicht den liebenden und nach wie vor stimmlich wohltemperierten Paaren, am Fenster des Containers in die Ferne schweifend, sondern der Inszenierung ein wenig die Luft aus. Tschechow und seine in großbürgerlicher Befangenheit verharrenden Helden scheinen nahe. Dazu tönt in milder Süße der "Chor der ungeborenen Kinder" ... |
Große Oper in Frankfurt: "Die Frau ohne Schatten" in Christof Nels Inszenierung Dem Albtraum ausgeliefert
Szene aus der Strauss-Premiere der Oper Frankfurt. Bild: Thilo Beu Von Kurier-Redakteur Volker Milch Nein, ein märchenhaft glückliches Ende bekräftigt das Schlussbild von Christof Nels Inszenierung der Strauss-Oper "Die Frau ohne Schatten" nicht: Kaiserin und Färberin gehen in Schwarz, ein Vorhang schließt sich, und die nun doch eigentlich glücklich vereinten Paare werden hinter einer imaginären Scheibe schemenhaft als Suchende sichtbar, wie irritiert vom überirdischen Singsang der aus der Ferne herüber klingenden Ungeborenen. Nein, nach Christof Nels bisherigen Regie-Taten wird man von der Premiere der heiklen Strauss-Oper, der ein wenig vom Odium des überspannten Machwerks anhaftet, ein buntes Märchenspektakel erwartet haben. Dabei ist die kühle, strenge Optik, die der Regisseur und sein in Frankfurt schon für "Salome" und "Butterfly" mitverantwortlicher Bühnenbildner Jens Kilian hier gefunden haben, der rechte Rahmen, um der üppig wuchernden Geschichte, ihrer Klanggewalt und schillernden Instrumentationskunst zu begegnen. An magischen Momenten fehlt es vor und in dem brillant ausgeleuchteten, auf der Drehbühne rotierenden Kubus dabei nicht, gerade auch Dank einer musikalisch ungemein fesselnden Interpretation unter der Leitung von Sebastian Weigle. Er lässt die verschiedenen Klangsphären, die irdische des Färber-Paares und die kammermusikalisch ätherische von Kaiser und Kaiserin, in höchster Qualität zu ihrem Recht kommen. Mit der schier überwältigenden Leistung der Gäste und Ensemble-Mitglieder festigt Frankfurts Opern-Intendant Bernd Loebe einmal mehr seinen Ruf als Vokal-Gourmet und beschwert seinem Haus einen großen Abend. Dabei gehört "Die Frau ohne Schatten" zum Anspruchsvollsten, was die Literatur zu bieten hat. Als Färberin beeindruckt Elizabeth Connell mit strahlender Dramatik. Terje Stensvold gibt einen Barak mit baritonaler Wärme, Silvana Dussmann eine brillante Kaiserin, Stephen O´Mara einen mit heldentenoralem Aplomb makellos auftrumpfenden Kaiser. Als umtriebige Strippenzieherin bewegt sich Julia Juons souveräne Amme zwischen den Paaren. Was geschieht nun mit den Repräsentanten einander ferner Welten in Nels Inszenierung? Der Apotheose des Humanen, der Erlösung zweier kinderloser Paare durch Selbstüberwindung der nach dem "Schatten" der Färberin trachtenden Kaiserin scheint Nel im Dunkel der Erfahrung nicht so recht zu trauen. Die Geschichte schlägt ins Pathologische um: Die Kaiserin und die Färberin wirken da wie die zur Unfruchtbarkeit verdammten Patientinnen einer geschlossenen Anstalt, in der Entwicklung stecken gebliebene Riesenkinder, ausgeliefert ihren Alpträumen und diversen "Ticks" - Die matronenhafte Färberin knetet nervös ihre Finger, die Kaiserin erstarrt in einer tülligen Rock-Creation. Der Leere, der sie ausgesetzt sind, ist mit ein bisschen Fruchtbarkeit allein wohl nicht beizukommen, da bedarf es anderer Therapien. Mag sein, dass in Nels von tierköpfigen Anzugsträgern bevölkerten (Alp-)Traumwelt noch einige Traumata klug versteckt sind - die Spannung seiner starken Bilder teilt sich auch ohne erschöpfende Analyse mit. > |
Oper: Der Regisseur Christof Nel entwickelt in Richard Strauss’ „Frau ohne Schatten" spannende Beziehungsgeschichten Wandlung einer Zicke Von Albrecht Schmidt FRANKFURT. Mit einer ungekürzten Fassung der „Frau ohne Schatten", jener Oper, die Richard Strauss und Hugo von Hofmannsthal als Haupt- und Meisterwerk ihrer gemeinsamen Arbeit einstuften, wagt sich die Frankfurter Oper an ein äußerst heikles Stück. Mit einer exzellenten Besetzung, einem glänzend aufgelegten Riesenorchester und einer cleveren Regie mit sparsamer Bühnenausstattung springt sie jedoch über alle Schatten. Hofmannsthals verwickelt-verrätselte Bildersprache, mit Schwulst, tiefsinnigen Symbolismen und Phantasmagorien überladen, verweigert sich eigentlich einer Vertonung. Da kann sich das Frankfurter Publikum glücklich schätzen, durch die mitlaufende Übertitelung wenigstens einige Stückchen des Handlungsfadens zu erhaschen: Die Kaiserin, abhängig vom Übervater, dem Geisterfürsten Keikobad, ist unfruchtbar und muss, getrieben von der bösartigen Amme, aus dem Märchenreich hinab in die Menschenwelt, um sich einen Schatten – Symbol der Fruchtbarkeit – zu kaufen. Im biederen Arme-Leute-Milieu des Färber-Ehepaares Barak findet sie in einem Verwandlungs- und Prüfungsprozess zu Selbstüberwindung und Verzicht. Christof Nel begegnet der Überfülle dieser Hofmannsthalschen Bilderrätsel mit der Inszenierung psychologisch ausgeloteter Beziehungsgeschichten und der Darstellung einer surrealistisch hereinbrechenden Albtraumwelt. Der symbolistischen Überfrachtung des Stückes setzt Jens Kilian in seinem Bühnenbild entwaffnende Nüchternheit entgegen: Ein wuchtiger Quader mit grauen Betonplatten, an einer Seite geöffnet, kreiselt ständig und lenkt den Blick auf die Menschen. Mit Leuchtpistolen sorgen maskierte Gespenstergestalten für theaterwirksame Effekte, wenn die „Übermächte" ins Spiel kommen – Hofmannsthals Mystik wandelt sich in eine Welt des Traums und Albtraums. Am gelungensten sind die Färberszenen, wo zwischen Metall-Ehebett und Waschmaschine die Krise zweier Menschen entwickelt wird, die zueinander wollen, aber nicht miteinander können. Sebastian Weigle dirigiert die vertrackte Partitur mit viel Sinn für plakative Effekte und Spannung. Der junge Berliner Gastdirigent weiß die Strauss’sche Mischung aus kammermusikalischer Intimität und großphilharmonischem Klang zu leuchtender Orchesterpracht zu nutzen, ohne die Stimmen zu überdecken. Elizabeth Connell (Färberin) singt ihren Part mit glänzender Energie und zeichnet die Wandlung von spröder Zickigkeit zu liebevoller Innigkeit überzeugend. Ihre stimmliche Flexibilität und Abrundung erreicht Silvana Dussmann (Kaiserin) nicht ganz: Ihre Spitzentöne sind zwar strahlend, aber oft von allzu forsch gemeißelter Schärfe. Wie ein weiblicher Mephisto agiert die böse Amme (stimmlich überaus präsent: Julia Juon). Es gab lang anhaltenden Beifall mit vielen Bravorufen, in die sich Buhs für die Regie mischten. Weitere Vorstellungen am 5., 8., 14., 20. und 23. Februar sowie am 6. und 9. März. |
Christof Nel inszeniert an der Frankfurter Oper "Die Frau ohne Schatten" von Richard Strauss Verklärung mit Puppenstuben-Flair
Von unserem Mitarbeiter Siegfried Kienzle Schwer zu entschlüsseln ist "Die Frau ohne Schatten", die Richard Strauss seine Lieblingsoper benannte und üppig mit Klang beschenkte. Strauss und sein Textdichter Hofmannsthal wollten an die "Zauberflöte" anknüpfen mit zwei Ehepaaren, dämonischen Versuchern, Läuterung und Prüfungsszenen. Die Regie von Christof Nel übersetzt für die Frankfurter Oper die Symbolik in witzig aktuelle Trivialzitate - und muss dafür kräftige Buhs einstecken. Dabei zeigt Nel überzeugend die Emanzipation der beiden Frauen, ihre Selbstbehauptung in der Männerwelt. Hofmannsthals heute eher altfränkisches Frauenideal, das die Gebärerin als Erlöserin der Menschheit feiert, belässt er im Hintergrund. Statt der märchenhaften Bilder mit goldnem Wasserfall und Schattenbrücke ins Leben dreht sich ein Würfel aus rohem Beton (Bühnenbild: Jens Kilian). An der Außenwand haust das Färberpaar mit Waschmaschine und eisernem Bettgestell. Der Hohlraum des Quaders ist der Bereich des Kaiserpaars: Mit Bett und Schrank, der zur Pforte in die Menschenwelt wird. Wie aus der Puppenstube: Witzig deformiert und aus der Spielzeugwelt geholt sind die Figuren; ausgestopft zu drallen Puppen wirken die Frauen. Im gebauschten Rüschenrock und in Bergschuhen trampelt die Kaiserin wie die Unschuld vom Land durch das ihr unbekannte Elend der Menschen. Sie will von der Färberin den Schatten einhandeln. Allein der Besitz des Schattens beschert ihr das Mutterglück und kann den Kaiser vom Tod retten. Dunkle Anzugträger wie aus Kafkas Welt lauern stets an den Kanten des Würfels. Ironisch verkitscht wird auch das Finale: Wenn die beiden Paare sich erlöst wiederfinden und die Verklärungsmusik immer ekstatischer lodert, stehen sie in Trauerkleidung in bürgerlicher Stube mit Blumenstrauß: keinerlei Umarmung. Man bleibt sich so fern wie im ganzen Stück. Sebastian Weigle, Gastdirigent von der Berliner Staatsoper, leuchtet das vielstimmige Netzwert der Leitmotive bezwingend aus, macht die orchestralen Zwischenspiele zu Höhepunkten, setzt die zarte Lyrik aus Solovioline und Cello gegen rauschhafte Orchesterausbrüche. Auch gesanglich gelingt ein Abend der Spitzenklasse: Elizabeth Connell ist eine Färberin mit hochdramatischer Isolden-Stimme, die auch mit den verhaltenen Tönen der leidenden, unverstandenen Frau bewegt. Silvana Dussmann (Kaiserin) verkörpert expressiv die Entwicklung zur mitleidenden Menschenfrau. Terje Stensvold ist treuherzig und tumb ein liebevoller Färber Barak. Stephen O'Mara gibt dem Kaiser kehlig und angestrengt die Tenorkraft. Eine mit Ovationen begrüßte Ensembleleistung. Weitere Aufführungen; 5./8./14./20. und 23. Februar. Karten unter Tel. (069) 1340-444 |
"Die Frau ohne Schatten" von Richard Strauss in Frankfurt Von Peter Hagmann Das Stück bleibt ein Problem. Die Geschichte von den zwei Paaren, dem adligen und dem proletarischen, die ihre Schwierigkeiten haben miteinander, die wie in Mozarts "Zauberflöte" einer Reihe von Prüfungen unterzogen werden, geläutert daraus hervorgehen und neu zueinander finden - manches an diesem Märchen, das Hugo von Hofmannsthal für Richard Strauss erdacht hat, kann man nicht ohne Widerstand hinnehmen. Gewiss, das Handwerk des Librettisten hat seine eigene Meisterschaft: in der Konstruktion des Geschehens, in der Versinnbildlichung von Gedanken durch Symbole - aber die Sprache trägt, auch wenn die Entstehungszeit und die soziale Herkunft des Autors in Rechnung gestellt werden, den Zug einer Belehrung von oben herab. Und zweifellos ist das Anliegen der "Frau ohne Schatten" aus den Auflösungstendenzen vor dem Ersten Weltkrieg heraus zu verstehen - dennoch: Das Lob der Ehe und der Fruchtbarkeit, vor allem die Darstellung der Probleme als solche der (gebärenden oder eben nicht gebärenden) Frau allein, das geht einem doch merklich gegen den Strich. Was Richard Strauss aus der Vorlage gemacht hat, ist freilich, bei allen kompositorischen Schwierigkeiten im Einzelnen, so grossartig, dass man auf das Stück keinesfalls verzichten möchte. Man kann sich ja daran reiben. Gelegenheit dazu bietet sich jetzt in der Oper Frankfurt, wo "Die Frau ohne Schatten" in einer neuen Produktion gezeigt wird. Da der gesungene Text im Musiktheater ohnehin kaum je, in diesem Werk aber garantiert nicht zu verstehen ist, wird er in Übertiteln aufs Bühnenportal projiziert - eine keineswegs störende, vielmehr ausgesprochen sinnvolle Beihilfe. So lässt sich nämlich - über den Rausch hinaus, den der Komponist erzeugt - das Ausmass der Schwierigkeiten, die sich mit dem Stück verbinden, bewusst halten. Und lässt sich verstehen, wie feinsinnig kritisch der Regisseur Christof Nel mit dem Geschehen umgeht. Den Mittelpunkt der von Jens Kilian geschaffenen Bühne stellt ein gewaltiger Würfel aus gegossenem Beton dar, der sich (leider geräuschvoll) um die eigene Achse dreht und sich als Raum in unterschiedlicher Bedeutung nutzen lässt. Innen und aussen - das wird einigermassen frei verstanden, jedenfalls zeichnen sich hier weniger reale als seelische Örtlichkeiten ab. Das Zauberische des Stücks bleibt einigermassen unterbelichtet, es beschränkt sich auf den Flitter, den die Amme immer wieder aus ihrer Manteltasche holt. Aber die Verwandlung der beiden Frauen, der Kaiserin und der Färberin, wird durch die Kostüme von Ilse Welter klar angezeigt. Und wenn am Ende der Betonwürfel zum bürgerlichen Wohnzimmer wird, hinter dessen Fenstern sich die beiden Paare, mit je einem Blumenstrauss versehen, zur Erinnerungsfoto aufstellen, ist das Fragezeichen, das Christoph Nel hinter die Geschichte setzt, nicht zu übersehen. Ohne jeden Vorbehalt wird dagegen die Partitur umgesetzt; in musikalischer Hinsicht gerät die Produktion zu einer Sternstunde. Hervorragend der Beitrag, der im Orchestergraben geleistet wird. Der junge Dirigent Sebastian Weigle, der mit diesem Auftritt nachhaltig auf sich aufmerksam macht, nimmt die hochkomplexe Partitur entschieden in den Griff; er hält die Musik in ruhigem Fluss und treibt sie subtil voran, wo sie ins Gefühlige umzukippen droht - und wie er die oft ausufernde Dynamik kontrolliert, zeugt von sicherem Handwerk. Erstklassig auch die Besetzung. Julia Juon spielt das Altjüngferliche der Amme vielleicht etwas stark aus, ist aber herrlich bei Stimme. Den Kaiser versieht der Tenor Stephen O'Mara wohl mit zu wenig Kontur, der Färber Barak ist bei Terje Stensvold und seinem warmen Bariton dagegen bestens aufgehoben. Als Färberin setzt sich Elizabeth Connell scharf von der naiven Gutmütigkeit ihres Gatten ab, während Silvana Dussmann die grosse Ausweitung in der Partie der Kaiserin voll zu erfüllen vermag. |
Das proletarische Elend der Oper von Manuel Brug Was früher ein Luxusliner war, ist heute ein Kriegsschiff. Und der Flottenadmiral auf solchem, bisweilen schwer stampfenden Dampfer ist längst kein betresster Grüß-August beim Captain´s Dinner mehr. Dafür fliegen zu viele Politgranaten herum; Zuschussabsenkungstornados werden wahllos abgefeuert. In einem Operhaus muss man heute als Intendant auf der Brücke auch schwerer See trotzen können. „Wir sind ein offenes, ein lustiges Haus." Obwohl ihm in Frankfurt von Anfang mindestens Windstärke Zehn ins Gesicht blies, hat sich Bernd Loebe bis zur Mitte seiner ersten Spielzeit gut gehalten. Als Besetzungschef am Brüsseler Théâtre de la Monnaie einer der ersten zweiten Männer der Szene, hat er den Wechsel offenbar ohne Blessuren überstanden. Dieser Intendant fällt keine einsamen Entscheidungen, er lässt schnell viele wissend teilhaben. So scheint nun die vor sechs Jahren beschlossene Rechtsformänderung der städtischen Bühnen in eine GmbH endlich greifbar. Es wird höchste Zeit. Ständige Budgetkürzungen haben Loebe bereits an den Rand der Handlungsunfähigkeit gebracht. Auch 1,2 Millionen Euro Tarifsteigerungen sind erstmals aus eigenen Mitteln zu finanzieren. Würde die langsam wieder auf der nationalen und internationalen Szene wahrgenommene Oper nicht neuerlich den Patronatsverein und andere Frankfurter Firmen bemühen, Loebe müsste mindestens drei Premieren absagen: „Augenblicklich habe ich eine siebenstellige Unterdeckung." Der geplante „Tristan" wackelt, wahrscheinlich gibt es ihn nur konzertant. Doch statt zu lamentieren schwärmt Loebe lieber von seinem neu engagierten Ensemble, von der Qualität des Orchesters, der Aufbruchsstimmung und vom Repertoiresystem. „In Brüssel habe ich immer das Stagione-Prinzip verteidigt, schon weil dort aus Platzgründen nichts anderes geht. Man ist dann aber auch zur Qualität verdammt. Hier kann ich meine meisten Vorstellungen mit denen in Brüssel messen. Man muss das Repertoire nur intelligent nutzen und effektiv einsetzen. Wir spielen hier 200 Abende Oper. Mindestens zehn Prozent mehr wäre wünschenswert, weil es dann billiger würde, ist aber mit dem gegenwärtigen Personalstand nicht drin." Stattdessen setzt Loebe auf Koproduktionen mit dem Schauspiel. Die Frankfurter Oper hat ein überregionales Imageproblem – das lokale Publikum hat es seit geraumer Zeit freilich durch verstärkten Zuspruch ignoriert. Das ist einem Quartett gelungener Premieren zu verdanken. Zu Beginn hat sich Loebe auf weithin beachtete Raritäten verlegt. Auf die halbgare Eröffnung mit Schuberts „Fierrabras" folgte Christian Pade mit einer soliden Aufführung von Brittens Grusel-Reißer „The Turn of the Screw" und mit dem hier uraufgeführten „Schatzgräber" die Fortsetzung der Frankfurter Schreker-Tradition. Mit Britten und Schreker wird es weitergehen, 2006 / 07 plant Loebe ein Britten-Festival, vorher schmiedet Peter Konwitschny mit den Wiener Festwochen vier Gluck-Opern zu einem Frühklassik-„Ring". Drei Regieverträge mit Christof Nel hat Loebe von seinem Vorgänger geerbt: Zum Glück passen sie sich nahtlos in seinen Spielplan ein. Und die intelligent minimalisierte „Frau ohne Schatten"-Premiere bewies, dass mit Nel noch zu rechnen ist – auch nach dem Berliner „Fidelio"-Desaster. Da Übertitel die hohen Frauenstimmen und die vielen Fernchöre endlich einmal verstehbar machen, sieht man deutlich, wie radikal Nel Hofmannsthal symbolistischen Schwulst reduziert hat. Und auch Sebastian Weigle samt seinem superben Orchester entschlackt die Strauss-Sahne souverän. Eine riesige Raufaser-Kiste mit Einschusslöchern (Bühne: Jens Kilian) beherbergt Kaiser (Stephen O'Mara) und Kaiserin (Silvana Dussmann), die zwischen allen Sphären schwebende Amme (vorzüglich agil: Julia Juon) sitzt als komisch altes Mischwesen mit Oma-Hütchen auf der Schwelle. Draußen wohnen Färber (Terje Stensvold) und Färberin (Elizabeth Connell) in ihrem Proletarierelend zwischen Waschmaschinen und Eisenbettstatt. Aus dem Geisterreich umschwirren maskierte Schatten die Szene, Nel mischt die Sphären (die man auch durch das Überwinden einer Schranktür durchschreitet) mit der beständig rotierenden Drehscheibe. Das bleibt alles einfach und klar. Das schwer erträgliche Märchen-Dickicht wird auf den Parabelgehalt eingedampft, weil Nel alle Erscheinungen und Wunder, bis hin zum Entsagungsentschluss der Kaiserin im monströsen Schatten ihres nie sichtbaren Übervaters Keikobad, prosaisch vorführt: am surreal Schönsten mit der in roten Fräcken zwischen der Wäscheleinen mit den gefärbten Stoffen wie auf einer Nabelschnur gefädelten Stimmen der Ungeborenen. Nach heutigen Maßstäben ist das vorzüglich gesungen, und wenn sich sanft karikierend nach einem in den C-Dur-Jubel gestemmten Finalquartett mit zwei glücklichen Frauen im Prinzesskleidchen und zwei ergeben Männern der Wolkenstore über einem Wohnzimmer-Gefängnis senkt – dann ist Frankfurts Oper wieder um einen gegenwartswachen Musiktheater-Abend reicher. Termine: 5., 8., 14., 20., 23. 2., 6., 9. 3.; Karten: (069) 13 40 400 Artikel erschienen am 5. Feb 2003 |
DER TAGESSPIEGEL Das Glück wohnt in der Kiste Von Christine Lemke-Matwey Was für ein Triumph! Welche Kraftanstrengung! Am Ende dieses musikalisch hinreißenden Abends stehen die Angehörigen der Frankfurter Oper wie glücklich begossene Pudel auf der Bühne und lassen sich feiern. Für ihren Mut, mit Strauss’ „Frau ohne Schatten" eines der gefürchtetsten Schwergewichte des Repertoires gestemmt zu haben; für die Überzeugungstäterschaft, die der Aufführung buchstäblich aus allen Poren quillt und die besagt, dass dieses Stück, das seine letzte Renaissance Mitte der 90er Jahre erlebte, keineswegs „durch" ist – und dass diese Partitur, wie jede große Musik, niemals und nirgends wirklich ausgehört sein kann, weil sie immer und überall quer steht in der Welt und in der Zeit. Und Jubel, Ovationen ganz einfach auch für das Können, die handwerkliche Präzision, mit der Orchester, Chor, Statisterie und Solisten hier die Flucht nach vorn antraten. Dabei trägt das Opernglück am Main zuallererst einen Namen, nämlich den – und das wird Berlin freuen – von Sebastian Weigle. Was der junge Dirigent und ehemalige Berliner Staatskapellmeister hier leistet, ist fulminant. Zum einen weiß man, dass gerade das Frankfurter Museumsorchester durchaus auch anders kann; zum anderen klingt dieses Stück selbst unter der lebenslänglich straussgesättigten Stabführung eines Wolfgang Sawallisch bisweilen grob und roh, und als sei es seiner glitzernden Instrumentationskünste zum Trotz doch bloß üppig, bloß luxuriös gemeint und vor allem: mächtig kräftig laut (sogar die legendäre Live-Aufnahme mit Karl Böhm und dem Orchester der Wiener Staatsoper von 1977 legt davon Zeugnis ab). Keine Spur von alledem bei Weigle. Einerseits weiß er das Doppelsphärische der Partitur – Geisterweben und Menschenwelt, das Kaiserpaar oben und die Färbersleute unten – im Gestus klar voneinander zu scheiden. Dieses nämlich bedeutet: Wenn der „hohe" Stil gefragt ist, die alabasterkühle Künstlichkeit des Hofmannsthalschen Märchenjenseits und also das so genannte „Ariadne"-Orchester, dann senken Weigle und die Seinen – bildlich gesprochen – ihre Stimmen, dann zieht sich der ganze elefantöse Apparat mit einem Mal auf feinste kammermusikalische Nuancen zurück, auf ein Tasten und Spintisieren einzelner Instrumente, ein Blühen wie im Verborgenen. Die Exposition des ersten Aktes etwa („Licht überm See"), das traumatische Geschehen um Amme, Geisterboten und Kaiser gerät so zu einem Krimi der hochgespannten, regelrecht hysterischen Innerlichkeit. Wendet sich der Blick mit der nächsten Einstellung jedoch dem Irdischen zu, den keifenden Brüdern des Färbers Barak etwa oder den fliegenden Fischen in der Pfanne der gebärunwilligen Färberin, dann schöpft Weigle aus dem brodelnd Vollen, dann stülpt sich nach außen, was die Partitur an sublimierten oder nicht sublimierten Leidenschaften durchweht und an dunkel freudianischen Ahnungen – ohne freilich im Ton jemals pastos zu werden oder gefühlig oder gar bräsig breit (es gibt einen Brief von Strauss, in dem er sich bei Hofmannsthal für dessen „Notschrei gegen das Wagnersche Musizieren" bedankt, der ihm, Strauss, die Tür zu einer ganz neuen „Landschaft" aufgestoßen habe). Gleichzeitig aber gelingt es Weigle mit raschen unprätenziösen Tempi, einer betont schlanken Anmutung des Ganzen und emphatischer Vorstellungskraft, die zwei Sphären so miteinander zu verquicken (und das ist das Tolle!), dass die eine in der anderen immerzu präsent ist, und das Hohe durch das Niedere, das Gespenstig-Heroische durch das Menschlich-Empfindsame foliengleich hindurchschimmert und -scheint. Selbst die riesenhaft sich auftürmende Schluss-Apotheose, in der Gattinnen und Gatten treulich zueinander finden, sprengt hier nicht den Rahmen, sondern krümmt sich gleichsam zurück in das Stück – warnend, mahnend, dass der Besitz des „Schattens", jenes Sinnbildes einer erfüllten Menschlichkeit, immer auch Opfer fordert. Wo Richard Strauss 1913 schon lang an nichts mehr glaubt und weniger von der Bedeutung seiner Figuren spricht als von deren „roten Blutkörperchen", da behauptet auch Weigle keine wabernde Klangmystik oder falsche Metaphysik – und erst Recht kein finales Aufrauschen in Erlösung. Dieser Mut zum Machartlichen tut der zweifellos letzten „romantischen" Oper der Moderne ungeheuer wohl. Mögen die beiden Frankfurter Protagonisten-Paare nach viereinhalb kräftezehrenden Stunden auch an gewisse Grenzen stoßen, so schlagen sie sich bis dahin doch fabelhaft. Vielleicht bleibt Stephen O’Mara als Kaiser den heldischen Schmelz ein wenig schuldig; Silvana Dussmann aber, seine Kaiserin, ein dralles Puppenkind in knisternden Rüschenkleidern, weiß durch Textverständlichkeit und eine leuchtende Biegsamkeit im Sopran zu begeistern, die in dieser Partie derzeit wohl ihresgleichen sucht. Auch das niedere Paar ist auf den Punkt besetzt: mit Elizabeth Connell als bewährter, mitunter leider zum Forcieren neigender Färberin und Terje Stensvold als gutmütig-trotteligem Barak – ein samtweicher und dennoch dramatisch focussierter Bariton, dessen Gesangskultur und Timbre an lang vergangene, selige Sängerzeiten denken lässt. Das Hauptlob des Abends aber gebührt Julia Juons Amme. Wohl nicht stimmlich, da gibt es andere, vollmundigere, auch: schöner klingende. Darstellerisch aber agiert Juon – ein schmales Mütterlein mit Federhütchen und Kittelschürze (Kostüme: Ilse Welter) – derart eindringlich, dass man das Drama dieser Person auf den ersten Blick erfasst. Eine Frau, die ihre Macht überreizt und bitter bestraft wird. Ein Mensch, der an seiner eigenen Kälte verzweifelt. Natürlich sind solche Tiefenblicke in die Figuren auch Christof Nels Regie-Verdienst. Sein Bühnenbildner Jens Kilian hat ihm eine sandsteinfarbene, von Einschusslöchern durchsiebte Kiste auf die Drehbühne montiert (derlei muss in der Oper gerade Mode sein). Drinnen begegnen den Frauen lauter grässliche Phantasmagorien des „richtigen" Lebens: Maskierte Männer, die auf sie zurobben, Messingbetten, die schräg in der Luft hängen, dunkle Schränke, die ins Bodenlose wachsen – während draußen der Kaiser mit einem Gefolge tierköpfiger Flintenträger patrouilliert. Am Ende aber, wenn alles gut ist, verschwinden die frisch vereinten Paare in ihrer Kiste hinter ein paar blütenweißen Gardinen. Das Glück, sagt diese Inszenierung, ist nur die nächste Katastrophe. Als hallte in der „Frau ohne Schatten" bereits das ganze Elend des 20. Jahrhunderts wider. |
Frankfurt spielt Richard Strauss’ „Frau ohne Schatten“ Von WOLFGANG SCHREIBER Wenn das Musiktheater in Frankfurt am Main den eingeschlagenen Glückskurs hält, könnte es am Ende der Spielzeit – nach Jahren der Dürre – sogar zum Opernhaus des Jahres gekürt werden. Denn Bernd Loebe, Frankfurts Operndirektor, hat schon in der ersten Saison mit seinen Premieren viel Spürsinn und Mut bewiesen. Hat nach aufsehenerregenden Erfolgen mit Schuberts selten gespieltem „Fierrabras“, Brittens genialem „The Turn of the Screw“ und dem exquisiten „Schatzgräber“ von Franz Schreker nun schon seinen vierten Erfolgscoup gelandet, nämlich die sperrige „Frau ohne Schatten“ von Richard Strauss, in der überraschend schlüssigen Inszenierung Christoph Nels, dirigiert vom jungen Berliner Kapellmeister Sebastian Weigle. Die symbolistisch überfrachtete, monströse Geistermärchen-Oper – in kargen Bildern überschaubar gemacht, musikalisch verschlankt. Die Bilder seien für ihn nicht Dekoration, sondern sie bedeuteten „die nach außen gekehrte Innenwelt“, sagt Regisseur Christoph Nel, der mit dem Dirigenten Sebastian Weigle in Frankfurt vor Jahren die „Salome“ von Strauss neu eingekleidet hat. So wird auch jetzt die Einheitsbühne (Jens Kilian) mit ihrem beherrschenden Quadermonolith zum simplen Mahnmal für eine komplexe, schwer durchschaubare Welt. Der weiße Würfel ist nach einer Seite hin offen, er dreht sich und gibt somit Partikel von Interieurs und Handlung frei: innen die hermetische Welt der Kaiserin, außen die in ihrer morschen Banalität apostrophierte Alltagswelt des Färberpaars. Überzeugend wird nachgewiesen, dass diese Oper, Strauss’ größte und schwierigste, eigentlich ein verkapptes Kammerspiel ist. Christoph Nel interessiert sich vor allem für die seelischen Hintergründe der verrätselten Figuren, von denen die Kaiserin, die mit dem Erwerb eines Schattens Fruchtbarkeit und Menschenwürde erringen soll, dem Geisterreich zugehört. An ihr und ihrer strengen Amme sowie an der in unseliger Menschensphäre hausenden, mit ihrem Mann in Unfrieden lebenden Färberin macht der Regisseur untergründige Spannungen deutlich zwischen den extrem polaren Welten, die imaginiert werden zwischen dem gläsern-irrealen Traum von Kaiser und Kaiserin und der albtraumhaften, immer wieder ins grob Surreale gekippten Realität von Färber und Färberin. Zu Recht wird der von Hofmannsthal gedichtete, zuweilen gestelzt-symbolhafte Librettotext durch Übertitel lesbar gemacht. Zaubermärchen der Läuterung, Mysterium der Selbstüberwindung, Erlösung, Wunder? Christoph Nel sieht im Vordergrund das Beziehungsdrama, mit drei für sich selbst kämpfenden, unglücklichen Frauen im Mittelpunkt. Die drei Hauptfiguren, in distanzierende Kinder- oder Alltagskleider gesteckt (Ilse Welter), geben der Aufführung musikalische wie darstellerische Plastizität – sie alle sind Sopranheroinen weiblicher Psychopathologie: Silvana Dussmann als imposant-stimmdramatische Kaiserin, Julia Juon als intelligente, gewaltige Amme und Elizabeth Connell, die in der Rolle der Färberin stählerne Kräfte freisetzt. Stephen O’Mara zeigt in der Rolle des überirdischen Kaisers Tenorprobleme, während Terje Stensvold den Färber Barak in die menschliche Baritonsphäre heimführt. Sebastian Weigle hatte das Frankfurter Opernorchester sozusagen im Griff, er disponierte den hochdramatischen Klanggestus der Partitur, erzielte aber auch sorgfältig abgestufte kammermusikalische Beweise einer Seelenkunst in Tönen. Die größte, spätestromantische Oper von Richard Strauss als Reigen unselig traumatisierter Geister. |
In Springerstiefeln und gelben Gummihandschuhen Von Götz Thieme Zur Oper gehen in dieser Zeit: durch Schneeregen ins Foyer eilen, Mantel abgeben, Programmheft greifen, Platz suchen. Und bangen. Wie es wohl werden mag, wenn Christof Nel, der Stuttgarter "Walküren"-Zurichter, in Frankfurt Richard Strauss" mystischen Thriller "Die Frau ohne Schatten" inszeniert, die psychologisierende "Zauberflöten"-Paraphrase ohne liebliche Flöterei, dafür mit umso mehr Zirzensischem in Text und Ton - Hofmannsthals raunenden Reimen ("Aus unsern Taten steigt ein Gericht! Aus unsern Herzen tönt die Posaune, die uns lädt.") und Strauss" üppig-überladener Partitur. Bangen besonders, wie der Dirigent die Orchesterhundertschaft lenken wird. Nicht lange. Sebastian Weigle, der Gast aus Berlin, langjähriger Staatskapellmeister an der Lindenoper, lässt den Taktstock niedersausen, und ein Stromstoß fährt in die Glieder. Zwei Takte genügen, um zu wissen, es wird ein ereignisreicher, musikalisch sensationeller Abend. Weigle wird den Wucherungen dieser Musik in jedem Moment gerecht, den finsteren Keikobad-Klängen, die der Charakterisierung des Darth Vader aus George Lucas" "Star Wars" zur Ehre gereicht hätten, und der süßen Emphase, der lyrischen Versunkenheit. Den "Elektra"-Brutalitäten lässt Sebastian Weigle Raum, wie den subtilen Farbwirkungen, die der Eklektiker Strauss von Schreker abgelauscht hat. Dem Theatersinn dieser leicht anrüchigen Musik, ihrer überwältigenden dramatischen Kraft vermag man sich so kaum zu entziehen. Und das Museumsorchester Frankfurt folgt Weigle auf hohem Niveau, berückend geradezu im zweiten Akt, der Szene im Falknerhaus, bei der Strauss den Violoncelli eine seiner schönsten Eingebungen übertrug (superb Daniel-Robert Grafs Cellosolo, fulminant die Gruppe). Sebastian Weigle und der Regisseur Christof Nel haben etliche Striche, die in der Theaterpraxis der "Frau ohne Schatten" trotz Werktreuebewegung hartnäckig verordnet werden, wieder geöffnet und vor allem den Chor, der bei den meisten Inszenierungen aus dem Off kommt, auf der Szene, am Schluss vom dritten Rang aus singen lassen. Bei allen anfänglichen Irritationen äußerlicher Art (der Waschmaschine im Hause des Färbers Barak, dem entstellenden Schottenkaro-Babydoll für seine Frau) führt Nel die Personen eminent musikalisch, und das Bühnenbild von Jens Kilian ist akustisch für die Sänger ideal (ein Faktor, der viel zu oft unberücksichtigt bleibt). Ein auf der Drehbühne platzierter, trapezartig sich öffnender weißer Hof mit einer runden Deckenöffnung, ein wenig an Axel Schultes" Kanzleramtsarchitektur erinnernd, unterstützt mit seinen reflektierenden Flächen die stimmliche Präsenz des Sängerensembles. Neben der Veteranin Elizabeth Connell als Färbersfrau, mit einer noch immer samtenen Mittellage und gewaltigen, hart gesetzten Stahltönen, singt Stephen O"Mara den Kaiser schlank-tenoral, ein wenig rüde: eine beinahe proletenhafte Erscheinung, die die Entfremdung der Kaiserin von ihm und seiner Welt hin zur Menschwelt verständlich macht, stünde dem nicht das Libretto entgegen. Für die übrigen drei wichtigen Rollen hat der Frankfurter Intendant Bernd Loebe, ein Stimmenkenner, drei erstklassige Sängerschauspieler engagieren können. Die Amme zeichnet Nel weniger als eine dämonische Figur, eher ist sie abgründig-verklemmte Eiferin: die phänomenale Julia Juon gibt ihr dafür die eisigen Töne. Silvana Dussmann als Kaiserin wird zwar einiges an Stimmkraft abgefordert, leichte Schärfen deuten es an, aber ihre musikalisch-gestische Identifikation mit der Figur ist vollkommen und mündet überwältigend in der Probeszene. Der oft gekürzte Monolog, in dem die Kaiserin sich entscheiden muss, den Schatten anzunehmen, um damit ihren Mann, den Kaiser, vor der Versteinerung zu retten und selbst fruchtbar zu werden oder dem Färber und seiner Frau die Lebenskraft, das Symbol des Schattens zu rauben, gehört zum dramatischen Höhepunkt der Oper. Strauss gestaltet diese Szene als Melodram, und Dussmann trifft im Sprechton genau richtig das Pathos und nicht das Melodramatische. Ihre Empathie mit dem Menschenpaar siegt, und sie besteht die von ihrem Vater Keikobad ohne ihr Wissen ihr auferlegte Gewissensprobe. Zweifelsohne eine großartige Entdeckung ist der Norweger Terje Stensvold als Färbersmann Barak. Fehlte ihm bei seinem Stuttgarter Gastspiel 2001 als Scarpia die gefährlich-sadistische Note, ist, was damals als Mangel wirkte, hier Rollenideal: Seine sympathisch gutmütige Strickjackengemütlichkeit verbindet sich mit Nels Konzept höchst überzeugend. Terje Stensvolds gesund-kerniger, in der Textur samtiger Bassbariton, der ein wenig an den von Walter Berry erinnert, ist wohl tönend und ausgeglichen in den Lagen und noch nicht von der geschmiedeten Härte, die übermäßig in die Richtung Heldenbariton getriebene Stimmen aufweisen. Christof Nels Inszenierung, die Hofmannsthals symbolbeladenen Text genau auf ihre Psychomechanik gelesen und sie als Rollenspiel gedeutet hat, blieb in Frankfurts Oper nicht unwidersprochen. Die Buhs entzückten sich wohl eher an den gelben Gummihandschuhen des Hausmanns Barak und den Springerstiefeln der Kaiserin, die sie unterm Tüllröckchen trug (Kostüme: Ilse Welter) und ihrer wilden Renate-Künast-Kurzhaarfrisur, als an den immer wieder berückenden Szenenbildern: der Kaiser im Falknerhaus, mit den namenlosen elf versteinerten Männern, von denen drei langsam gelbe Zeiger drehen; die im Hof verkantete Schräge, auf der einsam ein Bett steht, in dem sich die Kaiserin unruhig im Schlaf windet; der im glücklichen Schlussbild verlegen sich seiner Frau nähernde Barak, mit den Armen hin und her schlenkernd, bis ihm die Musik das Stichwort aus der Peinlichkeit liefert: "Nun will ich jubeln, wie keiner gejubelt." Nel hat so das hofmannsthalsche Stückwerk entkleidet zu einer kargen Kenntlichkeit. An diesem Körper ließ sich Maß nehmen für einen vorzüglich sitzenden Anzug aus musikalischem Luxusstoff. Weitere Vorstellungen am 8., 14., 20., 23. Februar, 6. und 9. März |
Frankfurt: Die Frau ohne Schatten Von R. TIEDEMANN Glückliches Frankfurt! Seit Beginn dieser Saison ist hier ein neues Leitungsteam der Oper am Werk, das nicht nur einen höchst interessanten Spielplan gestaltet, sondern die angesetzten Werke auch noch überwiegend adäquat zu besetzen weiß. Selbst in der zweiten Serie einer Neuproduktion wie Schuberts seltener heroisch-romantischer Oper "Fierrabras" bekommt man noch immer Beachtliches zu hören. Und als wäre eine Saison mit eben diesem Schubert, mit wichtigen Opern von Britten, Schreker, Massenet und vor allem Wagners "Tristan", mit gleich zwei Werken Salvatore Sciarrinos, mit einem Haydn und zwei konzertanten Produktionen der stets anspruchsvollen Gattung der Grand Opéra nicht interessant und fordernd genug, stellte man sich mit Richard Strauss' "Die Frau ohne Schatten" gleich noch einer der größten Herausforderungen des Musiktheaters überhaupt. Das kann sich nur erlauben, wer die wenigen Sänger, die diese anspruchsvollen Partien tatsächlich adäquat singen können, zum rechten Zeitpunkt zu verpflichten und zudem die Qualitäten eines erfahrenen Orchesters als Sicherheit im Rücken weiß. Frankfurts neuer Intendant Bernd Loebe wusste beides und bescherte dem Publikum einen musikalisch höchst beglückenden Abend mit diesem gefürchteten Werk der Superlative - und dies zudem ungestrichen! Die Wahl dieser Fassung stellt vor allem an die weiblichen Hauptpartien noch größere Anforderungen als sie ohnehin schon bergen. Und gerade hier hatte die Intendanz ein glückliches Händchen bewiesen: Silvana Dussmann gab ihr Debüt als Kaiserin und begeisterte mit ihrem sehr gut fokussierten Ton, der Beweglichkeit, lyrischen Schmelz und dramatischen Kern gleichermaßen in sich vereinigt. Die Stimme klang auch im Schlussjubel noch frisch und lässt der Sängerin derzeit viele Partien offen stehen - vorausgesetzt, die hörbare Verengung in der Extremhöhe und das mitunter starke Anschleifen dieser Töne von unten ist bei nachlassender Anspannung nach dem so wichtigen Debüt auszubessern. Einen bemerkenswerten Erfolg - und noch größere Ovationen - konnte auch Elizabeth Connell als Färberin einfahren. Nachdem ihr die geforderte vokale Härte im ersten Akt noch zu grell und mit zu geringer Substanz gelungen war, nahm sie vom zweiten Akt an mit ihrem zunehmend runden, nunmehr in der Farbgebung warmen und ausdauernd kraftvollen Sopran immer mehr für sich ein. Geradezu spektakulär ihre Fähigkeit, mit ungebrochener Intensität große dramatische Bögen zu spannen, ohne dabei je zu stimmtechnischen Tricks greifen oder die Stimme zu sehr unter Druck setzen zu müssen. Ein verdienter Triumph für die australische Sopranistin, die im vergangenen Jahr ihr 30-jähriges Bühnenjubiläum hatte feiern können. [...] Für eine überzeugende Aufführung gerade eines solchen Werkes bedarf es neben ausgezeichneten Solisten auf der Bühne allerdings noch einer ganzen Hundertschaft an weiteren Stars - im Graben. Das Orchester der Oper, das Frankfurter Museumsorchester, bewies große Klasse, bewältigte bravurös die gewaltige Partitur und spielte unter der Leitung von Gastdirigent Sebastian Weigle von Beginn an mit einer Intensität, die die Partitur mit all ihrer schillernden Farbenpracht voll zur Geltung brachte. Dem erfahrenen Dirigenten gelang dabei das Kunststück, bei aller orchestralen Prachtentfaltung und enormen Wucht der großen Szenen die ausgewogene Balance zu den Sängern nie zu gefährden. Hervorragend abgemischt zudem die Orchestergruppen untereinander, wenn auch die eine oder andere gestalterische Raffinesse noch nicht hundertprozentig homogen gelang. Doch gerade im Interpretatorischen bewies Weigle seine - und des Orchesters - Klasse, der großen Historie des Ensembles, das seinerzeit Strauss' Tondichtungen "Ein Heldenleben" und "Also sprach Zarathustra" uraufgeführt hatte, durchaus angemessen. In der Gesamtheit eine nachhaltig beeindruckende Leistungsschau der Oper Frankfurt, die den gerade bedenklich in Finanznot geratenen Stadtvätern jeden Gedanken an Subventionskürzungen verbieten muss. [...] |
Großtat Von Thomas Tillmann Ausgangspunkt für Christof Nels Inszenierung der gewiss sperrigen Frau ohne Schatten und den Bühnenraum von Jens Kilian (der kaum etwas anderes als einen mächtigen Kubus auf die dauernd betriebene Drehscheibe stellt, an dessen Außenwänden sich das triste Leben der Färbersleute abspielt, während im Innern des nach einer Seite hin offenen Gebildes die Szenen der "oberen" Figuren, aber auch die Traumsequenzen etwa der Färbersfrau stattfinden) war wohl Willi Schuhs 1952 formulierte Werkanalyse, nach der, eingeschlossen in ein "magisches Quadrat", zwei Welten zueinander in Beziehung treten, "zwei Menschenpaare, ein oberes und ein unteres, wie in der Zauberflöte, aber hier verhält es sich so, dass deren Konflikte ... einander wechselweise spiegeln, steigern und schließlich aufheben". Nel hebt die von Textdichter und Komponist konzipierte strikte Polarisierung von hoher, kristalliner Sphäre des Kaiserpaares und der prosaischen Lebenswelt des Färbers und seiner Frau weitgehend auf, so dass grundsätzlich rätselhaft bleibt, für wen oder was Kaiserin und Kaiser (letzterer immerhin mit einer improvisierten Krone ausgestattet), die kaum noch mephistophelische Züge tragende, gouvernantenhafte Amme und der wenig Autorität ausstrahlende Geisterbote, der Falke und die vielen anderen ständig die Bühne bevölkernden Tier- und Symbolfiguren in dieser ansonsten sehr gegenständlichen Welt eigentlich stehen. Dabei überzeugt die Zeichnung des zweifellos ernüchternden Alltags in der "Sozialwohnung" des Färbers: Die drei behinderten Brüder lungern im Bett herum und stellen der zurecht frustrierten Frau nach, gefärbt wird in der Waschmaschine, die Einkäufe werden auf einfachen Bierzeltgarnituren verschlungen, der einzige Schmuck ist eine einzelne Blume in einer Flasche, die die Färberin bei ihrem Ausbruch gegen Ende des zweiten Aufzugs ebenso zerpflückt wie sie ihren sicher preiswerten Ehering abstreift, und so reichen ein paar Bahnen roten Tülls, Karnevalsklunker und der attraktive, halbstarke Nachbarssohn im Feinripp-Unterhemd, um die ins mädchenhafte Sonntagskleid gesteckte Färberin (dies wie die übrigen wenig vorteilhaften, unschönen Kostüme verantwortet Ilse Welter) auf verwegene Gedanken zu bringen.
Das Zauberisch-Überirdische des Werkes aber bleibt außen vor, sieht man davon ab, dass die Amme in den entscheidenden Momenten eben doch wie im Kindertheater ein bisschen Glimmer durch die Luft wirft, das Licht sich verändert oder sich im dritten Aufzug für kurze Zeit der überdimensionale Schattenriss Keikobads über die trostlose Szene legt. Und auch in der Personencharakterisierung und -führung hat diese Inszenierung erhebliche Defizite: Über weite Strecken hat man das Gefühl, dass die Akteure tun oder lassen, was sie sich selber zurechtgelegt haben, so dass selbst eine so exquisite Charakterdarstellerin wie Julia Juon vergleichsweise blass wirkt. Ich jedenfalls fand wenig Zugang zu den Figuren und folgte ihrem Schicksal keineswegs gelangweilt, aber auch kein bisschen beteiligt oder gar gerührt bis zum trivialen Ende: Nach ihrem beherzten "Ich will nicht!" bekommt die Kaiserin ein paar künstliche Blumen in die Hand gedrückt, der Betonwürfel öffnet sich zum spießigen Wohnzimmer mit Raffrollo, in dem sich Kaisers und Baraks, die sich auch noch fix in ihre Sonntagskleider geworfen haben, eher steif als erleichtert zum Finaljubel aufstellen, als ginge es darum, ein Erinnerungsfoto fürs Familienalbum zu schießen, mit dem man auch Außenstehenden beweisen kann, das jetzt alles wieder gut ist - bis zum nächsten großen Krach, wenn die dann nicht mehr Ungeborenen Vater und/oder Mutter den letzten Nerv rauben.
Christof Nel gelingt es letztlich nicht, in seinem an sich ja nachvollziehbaren Bestreben um Entmythologisierung des Märchens mit tiefenpsychologischer Intention, in dem es "um die Verwandlung von der Monade des geschlossenen Ichs in die Möglichkeit des ... dialogischen Prinzips" (Norbert Abels), um Selbstüberwindung geht (um die Kraft also, die die Menschen entsteinert, die aus Unfruchtbarkeit Fruchtbarkeit macht, die es möglich macht, der Liebesunfähigkeit zu entrinnen), und seinem durchaus begrüßenswerten Bemühen um szenische Reduktion die im zweifellos erhellenden Programmheft aus Klassikern der tiefenpsychologischen, soziologischen und feministischen Literatur en masse zusammengestellten Interpretationsansätze konsequent und spannend umzusetzen - was bleibt, ist eine merkwürdig banale Story, die die Spielleiter von Vorabendserien professioneller aufzubereiten verstehen. Und doch können anders als bei anderen Produktionen dieses Teams die rätselhaften, ungeschickten und verschenkten Momente der Inszenierung den künstlerischen Erfolg der Aufführung nicht wirklich gefährden, denn es ist an sich schon eine nicht zu unterschätzende Großtat, das gewaltige Stück ohne die üblichen Striche und zudem mit Übertiteln zu präsentieren, die es dem Publikum ermöglichen, endlich einmal den wunderbaren Text Hofmannsthals nachzuvollziehen, der sonst häufig entweder in den Orchesterfluten untergeht oder Sängern anvertraut ist, die sich bei dessen Aussprache keinerlei Mühe geben (was an diesem Abend wahrlich nicht der Fall war!). Es ist das musikalische Niveau, das diesen Abend zu einem großen, unvergesslichen macht, und es sind die Sängerinnen und Sänger, die nicht am Rande ihrer Möglichkeiten entlang schlittern und doch bei jedem Orchester-mezzoforte Schiffbruch erleiden, sondern die aus dem Vollen schöpfen können und einen die Fahrt nach Hessen keine Sekunde bereuen lassen. Auf Stephen O'Mara, der sich seit seinem Europadebüt vor gut zehn Jahren vor allem im italienischen Fach einen Namen gemacht hat, wurde ich durch seinen bei der italienischen Erstaufführung dokumentierten Menelas in Strauss' Die ägyptische Helena (vgl. unsere CD-Kritik) aufmerksam. Hofmannsthals Forderung, der Kaiser solle "eine süße, schöngeführte Stimme in dem Ganzen sein", erfüllte der Amerikaner mit seinem sinnlich vibrierenden, dunkel fundierten, mühelos in allen Lagen ansprechenden jugendlichen Heldentenor auf höchstem Niveau mit schönen messa-di-voce- und Legato-Effekten, ohne enervierende Forteexzesse und ohne jedes Problem mit der wahrlich heiklen Tessitur weitaus besser als manch großer Name selbst im Studio - ein bisschen mehr Applaus hätte es da schon sein dürfen, auch wenn er natürlich weniger auf der Bühne ist als die Damen oder der als Figur berührendere Färber, der in Terje Stensvold mit seinem die über dreißigjährige Karriere wirklich nicht erahnen lassenden, vollmundig-warmtimbrierten Bariton allerdings ebenfalls einen exzellenten Interpreten fand, der sich vor prominenterer Konkurrenz nicht verstecken muss.
Silvana Dussmann (vgl. unser Interview) hat zweifellos den richtigen jubelnd-ekstatischen Ton, die strahlende, beeindruckend furchtlos attackierte, hinsichtlich der Intonation allerdings nicht immer präzise Höhe und auch genügend Volumen in der Mittellage für die Partie der hier als trotziger Teenager in Sweatshirtjacke mit Kapuze, Tüllrock, derben Schnürstiefeln und leicht punkiger, strähniger Out-of-bed-Frisur daherkommenden Kaiserin, der sie (auch in der großen Sprechszene des dritten Aufzugs) nichts schuldig bleibt, sieht man von einigen unsicheren Einsätzen und rhythmischen Freiheiten etwa in der Erwachensszene ab, die sich hoffentlich bei größerer Vertrautheit mit dieser für sie neuen Rolle geben werden. Die eigentliche Sensation war aber Elizabeth Connell in der kräftezehrenden Partie der Färbersfrau, die man selbst auf den besten Platten kaum so souverän bewältigt und dabei so schön gesungen gehört hat. Natürlich bleiben einem die einfach sensationellen Forteacuti am ehesten in Erinnerung, die in ihrer Mühelosigkeit an die Nilsson gemahnen und doch mehr Wärme aufweisen, aber nach dreißig langen Jahren im dramatischen (Mezzo-)Sopranfach, die die Künstlerin an alle großen Opernhäuser und zu den bedeutendsten Festivals führten, ist man fast noch mehr erstaunt, wie frisch die Stimme im erfreulich häufig eingesetzten Piano und auch noch am Ende der langen Vorstellung beim finalen, unglaublich strahlenden C klang – eine Ausnahmeleistung. Und auch darstellerisch bemühte die Sängerin sich nach Kräften, der Figur von Anfang an sympathische Züge zu geben und ihre Not in den Vordergrund zu stellen, die sich ihr Ventil in Härte und Spott sucht.
Julia Juons Amme weckte beim Rezensenten Erinnerungen an ihre superbe Kundry und Ortrud, Partien, in denen ihr höhensicherer, "sopraniger", schlanker Mezzo noch besser zur Geltung kommt und in denen sie, zumal wenn sie von einem kompetenten Regisseur inspiriert wird, noch stärkeres darstellerisches Profil zu entwickeln versteht. Einen glänzend geführten, kraftvollen und höhenstarken Bariton ließ Gerd Grochowski, der bereits als Scarpia in Wuppertal und Heerrufer und Telramund in Bonn aufgefallen war und seit Beginn der Spielzeit fest an der Oper Frankfurt engagiert ist, als Geisterbote und Wächter der Stadt hören - zweifellos wird er über kurz und lang selbst ein vorzüglicher Barak sein. Julia Raschke dagegen hatte nur ein sehr kleines, dünnes Stimmchen für den Falken anzubieten, während Elzbieta Ardam die Einsätze der Stimme von oben, die sie bereits in der Solti-Aufnahme des Werkes gesungen hatte, ohne jede Ausstrahlung abspulte, aber wirkliche Ausfälle waren an diesem Abend nicht zu beklagen, auch nicht bei der Erscheinung des Jünglings, den Brüdern des Färbers, den Wächtern der Stadt oder den Dienerinnen und Kinderstimmen, wenngleich man sich bei beiden Gruppen über etwas mehr Kongruenz gefreut hätte. Sebastian Weigle, von 1997 bis 2002 Erster Staatskapellmeister an der Staatsoper Berlin und designierter Musikdirektor des Teatro del Liceu in Barcelona, hatte bereits zu Beginn der Spielzeit mit der Wiederaufnahme der Salome auf sich aufmerksam gemacht und erntete auch mit dieser hochkarätigen, unpathetischen, jede Süßlichkeit und jeden übertriebenen Lärm meidenden, für meinen Geschmack aber doch etwas zu nüchternen, nicht wirklich berührenden und auch ein wenig zu flotten Wiedergabe keineswegs zu Unrecht größten Beifall. FAZIT: Besuchte Aufführung: 8. Februar 2003 (3. Vorstellung) Fotos von Thilo Beu |