Torna alla Fenice dopo tre anni la "Traviata" messa in scena da Robert Carsen Venezia. Sesso, denaro e un'idea poco consolatoria nella "Traviata" con la regia di Robert Carlsen ripresa dopo 3 anni alla Fenice. È uno spettacolo forte, ideato con una singolare tensione teatrale e con una notevole organizzazione construttiva, soprattutto nei concertati drammatici. E tuttavia si notano alcune forzature. Perché visualizzare il preludio iniziale con un andirivieni di clienti bramosi di sesso nella stanza di Violetta, mentre in orchestra risuonano accenti funerei che ne prefigurano la morte? Le coreografie smodate e televisive nella festa in casa di Flora compromettono la semplicità rapsodica verdiana. Non si capisce anche la trasformazione dell'interno nel primo quadro del second'atto in un esterno di betulle, suggestivo visivamente quanto incongruo drammaticamente. Naturalmente è una lettura contemporanea, come quasi di norma oggi, con scene e costumi di impeccabile gusto figurativo. Lo spettacolo cresce a partire dalla scena del gioco, scandita sul ritmo inarrestabile della musica, in cui la figura di Germont, dopo la invettiva di Alfredo, assume un risalto grandioso e ammonitore dal fondo del palcoscenico in un quadro visivo geometrico e luminescente. In tutto l'ultimo atto circola una livida atmosfera di desolazione e di abbandono. Violetta sembra vivere come un'estranea in una casa trasandata, con operai e figure carnevalesche che cantano il baccanale, non più dietro le quinte, e invadono la scena. Solo un televisore guasto certifica una presenza viva. È un racconto di emozionante intensità, cui contribuisce il nudo, straordinario impianto scenico di Patrick Kinmonth. Robert Carlsen è stato invitato per la prima volta a Venezia 3 anni fa su suggerimento dell'allora direttore artistico Sergio Segalini (ideatore delle migliori stagioni degli ultimi anni), che però volle ricorrere alla cosiddetta prima versione del 1853. Fu un'esperienza conoscitiva non necessaria. La edizione definitiva della "Traviata" è quella notissima del 1854, ora opportunamente ripresa alla Fenice, che non è affatto una seconda versione, ma semplicemente una redazione corretta del testo originario, con alcune varianti migliorative soprattutto per quanto riguarda il duetto Violetta-Germont. Naturalmente Paolo Arrivabeni, che è un esperto conoscitore del nostro melodramma, non poteva che optare per la lezione canonica del 1854. Canonica d'altronde è anche l'impostazione interpretativa del direttore parmense che ripropone una accorta linea tradizionale italiana, senza velleitari aggiornamenti o riletture critiche. È una scelta che guarda ai vecchi maestri (penso per esempio a Molinari Pradelli), e che ribadisce una linea neoromantica condivisa da altri direttori della sua generazione, da Benini a Palumbo. C'è nelle pagine brillanti una incalzante predilezione per tempi spediti, nel rispetto dei metronomi verdiani, con punte però di eccessiva ridondanza fonica (esaltata anche dalla acustica troppo sonora della Fenice). Nitido e molto melodrammatico lo stacco delle cabalette; felicemente distesi gli episodi lirici, come in tutto il terzo atto, disegnato con costante attenzione al palcoscenico e con nobile cantabilità.Il giovane, molto dotato soprano Maria Luigia Borsi tende a sentire gli aerei ornamenti del finale del primo atto come agilità di forza, ma emerge nella elegia del terzo atto una Violetta sensibile, di trepidante lirismo, ma non sentimentale. Il bravo tenore Dario Schmuck presenta un Alfredo dal fraseggio corretto e appassionato. Il magnifico baritono bulgaro Vladimir Stojanov conosce tutte le risorse dello stile verdiano. Convince l'orchestra, anche se talora è troppo drammatizzata dal direttore; ben preparato il coro da Emanuela Di Pietro. Successo caldissimo dopo le tempeste sindacali dei giorni scorsi. Mario Messinis | |
Venezia Teatro La FeniceGiuseppe Verdi La Traviata La Traviata è un’opera rivoluzionaria, come lo sono Don Giovanni, Boris, Pellèas…; è rivoluzionaria perché mette impietosamente e lucidamente alla ribalta le tristezze dell’uomo, e lo fa santificando, di fatto, una puttana, che per sensibilità e dignità si può permettere di dare una magistrale lezione di vita non solo a coloro che la circondano, ma anche, e soprattutto, al pubblico, solitamente poco propenso, soprattutto a metà del Diciannovesimo secolo, a vedersi rappresentato in scena, con le sue ipocrisie e le sue miserie. Come avemmo già a scrivere nel 2005, allorquando Traviata nell’allestimento geniale di Robert Carsen inaugurò la risorta Fenice, è il denaro che scandisce, quasi ossessivamente la vita di Violetta. Fruscianti banconote che escono dai portafogli dei generosi "amici" di madamigella Valéry, che riempiono i cassetti dei mobili del suo boudoir, che cadono come foglie secche dagli alberi del giardino-foresta del secondo atto a formare un tappeto, che vengono gettate sul viso della cortigiana durante il party di Flora, che servono infine a saldare l’ultima parcella del dottor Grenvil, che "fido amico" scippa letteralmente la sgomenta Annina. Il mondo di questa Violetta e del suo entourage non è un mondo volgare, è semplicemente vuoto, fatuo, superficiale, e di questo mondo è parte anche un Alfredo-fotografo, che appare più innamorato dell’immagine di Violetta che della donna reale. Carsen ama i simboli: il verde, il colore dei soldi, è assolutamente dominante, financo lo champagne col quale si brinda è "Dom Perignon", verde l’etichetta, le verdi banconote-foglia cadenti a sottolineare l’alienazione dei beni materiali, infine, le tappezzerie verdi, oramai a brandelli, della casa di Violetta morente, che, appena spirata la padrona di casa, verranno sostituite da parati rossi che due impietosi operai portano nella stanza ridotta ad uno squallido cantiere, sulle ormai spoglie pareti lacerti di un parato che ricorda il bosco che vide felice l’infelice cortigiana. L’unica figura realmente umana in questa fiera delle vanità è Violetta, e solo lei. È uno spettacolo forte, non trasgressivo, profondamente umano, rivelatore della società contemporanea, e non solo, nella quale il dramma ottocentesco viene trasposto senza stravolgimenti, senza violenze alla musica, senza voler mostrare ciò che nel racconto originale non c’è. Non sono scandalosi i cow-boys e le cow-girls della festa di Flora, non è scandalosa la rozzezza di Germont padre, non è scandalosa l’avidità del dottor Grenvil: è semplicemente la vita. Il mondo che il regista pone intorno alla protagonista è fatto di divette, mantenute, modelli, amanti-protettori, un mondo che turbina in un tripudio di vanità e che scompare come d’incanto al declinare della salute e delle finanze della poveretta. Ultimo affronto, l’irruzione della banda degli amici, invasati dallo spirito del carnevale, nella stanza Violetta morente, che viene guardata con indifferenza infastidita. Uno spettacolo perfetto e convincente. Bellissime le scene, tra il Déco ed il moderno, di Patrick Kinmonth, che firma anche dei costumi molto "glamour", e suggestivo il light design di Peter van Praet. Se nel 2005 apprezzammo questo allestimento, nel 2007 lo amiamo davvero. Protagonista della ripresa veneziana è Maria Luigia Borsi, che da voce e corpo ad una Violetta intensa, fiera ed appassionata, la cui dignità è palpabile al pari della sua disperazione. Ci aveva un po’ preoccupati il primo atto, nel quale la Borsi ci era apparsa un po’ in debito di fiato, preoccupazioni, fortunatamente, sopite nel corso dei successivi due sia per qualità vocale che per interpretazione. Per lei un meritato successo. Bene anche Dario Schmunk, Alfredo, che ci è parso in crescita rispetto agli ultimi ascolti. La voce non è grande, ma passa benissimo, ed è supportata da un’eccellente linea di canto. Di Schmunk ci ha convinto la chiave interpretativa e la ricchezza del fraseggio. Bene davvero. Vladimir Stoyanov è un Germont ideale per voce, una delle più belle, secondo noi, nell’attuale universo dei baritoni, e per presenza scenica. La linea di canto è morbida, gli accenti sempre pertinenti, l’emissione impeccabile. A lui la palma di migliore della serata. Molto positive le prove di Vincenzo Taormina, giustamente odioso Duphol, di Luca Dall’Amico, ottimo d’Obigny e di Iorio Zennaro, convincente Gastone, di Elisabetta Martorana, partecipe Annina. A posto Mattia Denti, Grenvil, Silvia Pasini, Flora, Luca Favaron, Giuseppe, Salvatore Giacalone, un domestico, ed infine Antonio Casagrande, Giovanni. Alla prova nel complesso assai più che soddisfacente della compagnia di canto non se ne è, purtroppo, accompagnata una di pari valore sul versante della concertazione. Paolo Arrivabeni stacca tempi che paiono tagliati con l’accetta, lenti e, in alcune occasioni, grevi; il volume orchestrale fa pensare più a Bruckner che non a Verdi, che in Traviata più che altrove, necessita sì di intensità, accompagnata tuttavia da un’imprescindibile levità. Il pubblico ha comunque gradito ed applaudito. Discreta l’orchestra e davvero bene il coro preparato da Emanuela Di Pietro. Al termine applausi convinti dal pubblico cosmopolita che gremiva la sala. Alessandro Cammarano | |