Venezia Teatro La FeniceRichard Wagner Siegfried Se il mondo della Walküre secondo Robert Carsen era gelido e ricoperto da una coltre di neve spessa ed impenetrabile, quello di Siegfried è un luogo di macerie, di rottami, di rovina totale, una sorta di caos post-industriale, nel quale tutto ciò che era apparso come una conquista dell’uomo gli si è ritorto contro, sradicando definitivamente qualsivoglia sogno di onnipotenza. La capanna di Mime è una roulotte decrepita in mezzo ad una discarica, la foresta è fatta di tronchi spezzati, il Fafner-drago si materializza in forma di una gigantesca benna da escavazione arrugginita che diventa poi la grotta stessa, il Wahlalla-salone è oramai abbandonato, il quadro raffigurante la sacra rupe è staccato dalla parete, i mobili sono accatastati, le mele, gettate a terra da Wotan dopo il confronto con Freia, giacciono al suolo, oramai marcescenti. La demitizzazione del mito, ci sia permesso il bisticcio di parole, è completa nella definizione dei personaggi: Mime è un sordido robivecchi, assetato di vendetta e desideroso di riavere ciò che in realtà non ha mai avuto; Wotan, a sua volta, un uomo condannato dal suo stesso sapere alla coscienza della sconfitta sua e di ciò che rappresenta. Siegfried un ragazzone tanto innocente quanto incosciente, eroe suo malgrado perché non può essere altro; Alberich, un piccolo malavivente da strada, tanto rancoroso quanto impotente, che trova conforto nella bottiglia. Fafner, che morendo riassume la propria forma di gigante e che accetta con serenità e dignità la morte, finalmente di nuovo padrone di quella natura che da sé stesso si era negata per brama di potere; Erda una casalinga pragmatica, tanto lucida quanto impotente dinanzi agli eventi, che conosce e che non può mutare. L’Uccellino della foresta, che Siegfried raccoglie morto da uno dei tronchi stecchiti e che gli parla di un futuro che pare già travolto dagli eventi; Brünnhilde, infine, terrorizzata e felice, perché ancora inconsapevole del proprio destino, nel suo risveglio di donna e nella scoperta dell’amore sensuale. Come ci è accaduto per Walküre, l’approccio di Carsen al Ring ci convince e ci coinvolge fino in fondo, complici anche le splendide scene e gli efficaci costumi di Patrick Kinmonth e l’efficacissimo light design di Manfred Voss, che regala atmosfere che riecheggiano il cinema espressionista tedesco. Attendiamo con ansia il Götterdämmerung ed il Rheigold per vedere compiuta quella che, a nostro avviso, è una delle più geniali letture del Ring viste negli ultimi anni. A tanta efficace bellezza visiva e profondità di contenuti drammaturgici ha fatto degno contraltare una parte musicale assolutamente straordinaria. Jeffrey Tate è un sensazionale affabulatore, capace di prendere l’ascoltatore per mano e di guidarlo, dapprima timidamente, poi con sempre maggior coinvolgimento, attraverso ogni più riposto meandro della musica di Wagner. La lettura di Tate è tersa ed appassionata insieme, giustamente malinconica, già consapevole della sconfitta finale del mondo degli dei e degli eroi: una meraviglia che ci ha emozionato, complice anche un’orchestra precisa e partecipe, fino a commuoverci alle lacrime nella perfezione assoluta del terzo atto. Ottima, senza riserve, la compagnia di cantanti-attori. Stefan Vinke ha dimostrato di possedere le caratteristiche essenziali dell’eroe eponimo: il suo Siegfried convince per bellezza di voce, sempre ben proiettata, di squillo sicuro e di corpo saldo, e per precisione nel fraseggio. La sua adesione al dettato di Carsen, e questo vale anche per tutti gli altri cantanti, è totale. Per lui un successo meritatissimo. Strepitoso, concedeteci il superlativo, il Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, eccezionale cantate-attore, che, con voce perfetta ed una recitazione incredibile per ricchezza di sfumature, ha saputo cogliere e rendere ogni sfumatura del personaggio e che, alla fine, ha accolto una meritatissima ovazione. Ancora una volta ci ha colpito il disincantato eppure indomito Wanderer di Greer Grimsley, che ad una voce davvero molto bella per smalto e colore, unisce un gusto nel fraseggio e nell’accento che richiama alla memoria la nobiltà del grande George London. Tre volte bravo anche a lui. Bene davvero il nevrotico Alberich di Werner Van Mechelen, la cui voce a tratti un po’ ovattata conferisce al carattere del Nibelungo quella vena di tenebra che gli si addice pienamente. Ottimo il Fafner, dapprima minaccioso e poi nobilmente sconfitto, di Bjarni Thor Kristinsson, basso dotato di un mezzo vocale impressionante per volume e che tuttavia riesce a plasmare con eleganza. Susan Bullock è una Brünnhilde intensa e spaventata, combattuta tra il passato oramai perduto ed un futuro che le si schiude dinanzi e che la porterà, dopo averla illusa, alla distruzione finale. Per quel che ci riguarda abbiamo apprezzato la prova della Bullock, che ha un bagaglio vocale di assoluto rilievo, anche a fronte della sua scelta di voler cantare nonostante una forte indisposizione l’avesse quasi, nei giorni scorsi, costretta a rinunciare. A fronte di ciò ci sentiamo di censurare i fischi che non più di tre "facinorosi" le hanno indirizzato dal loggione: non li meritava, nonostante qualche piccola défaillance. Pienamente positive le prove di Anne Pellekoorne, Erda di sgificativa presenza sia vocale che scenica, e di Inka Rinn, precisissimo Uccellino della foresta. Al termine successo trionfale per tutti, con applausi e "battipiedi, a suggello di una serata davvero emozionante. Alessandro Cammarano | |
ELZEVIRO La Tetralogia di Wagner alla Fenice Convince la direzione di Tate, "provinciale" la regia Al Teatro La Fenice di Venezia prosegue la Tetralogia di Wagner, un titolo all' anno, sotto la direzione del maestro Jeffrey Tate e nel progetto teatrale di Robert Carsen. Quest'anno toccava al Siegfried, svoltosi a recite esaurite e accolto con autentico entusiasmo. Il maestro Tate concerta, ciò che nel suo caso conta ancor più, e dirige, con risultati che gli fanno alto onore e lo confermano fra gli autorevoli wagneriani della scena internazionale. Egli procede con un passo eguale e si direbbe inesorabile ma la sua conoscenza della partitura nelle riposte pieghe è così palese da farci percepire come non solo la minuta analisi caratterizzi il suo lavoro, anche una sintesi rapinosa nell' ultima mezz'ora del III atto. Il punto di partenza è una lettura impeccabile: e quando si dice ciò nel Siegfried non s' intende solo intonazione in una partitura estenuante per l'orchestra, precisione negli appiombi, bel suono. Il risultato della lettura è, da un lato, una coerenza nel racconto tematico affidato all' orchestra, che nel I e II atto potrebb'essere inteso quasi senza parole, a onta dell' esser questi i più "teatrali" e "comici" di tutta la Tetralogia. Poi, e ciò è ancor più importante e difficile, la capacità di ottenere "stereofonia" in tutte le combinazioni contrappuntistiche dei motivi, che possono addirittura esser multiple e debbono esser percepite con la massima chiarezza giacché la loro compresenza non solo ha sempre profondo significato, duri essa anche pochi secondi, ma sviluppa un tipo di linguaggio mitico che vede i motivi quasi elementi d' un discorso verbale, declinati. Sotto questo profilo, Tate dà una lezione della quale ogni wagneriano dev'essergli grato. La sua conoscenza del, e meditazione sul testo, non si fermano qui. Ho molto ammirato la sua maniera d'isolare dal contesto la scena della fusione della Spada da parte di Siegfried, uno dei vertici della poesia di Wagner. Quando il giovinetto ricostruisce il retaggio avito, l'Autore pone a base un solenne basso di Passacaglia chiaro omaggio a Bach: il canto di Siegfried è successione di Variazioni. Ma dev'esser chiaro che ivi il personaggio non parla cantando, canta cantando, e canta d' istinto un carmen magico rafforzantelo nell' impresa a lui solo destinata di rifondere la Spada che si rifiuta all' esperto fabbro Mime. Non dirò d'aver ascoltato una compagnia di canto perfetta, cosa che oggi si può solo sognare. Dico d' aver ascoltato una compagnia grazie a che s'è avuto un Siegfried plausibile ed era possibile quindi abbandonarsi all'esperienza, d'emozione senza pari, di seguire il filo compositivo di Wagner. Il protagonista, Stefan Vinke, ha timbro non gradevole, note "fisse", ma sta in palcoscenico per i tre atti, tra l' altro con notevoli doti d'attore e perfetto solfeggio quando deve suonare l'incudine, quasi avesse studiato percussioni; e canta tutte le note. Brunilde, Susan Bullock, è un soprano eroico di qualità e precisione, ancorché un po' stridula negli acuti. Wotan, Greer Grimsley, è il classico basso-baritono timbrato e dotato di volume richiesto dal ruolo. Mime, Wolfgang Abliger-Sperrhacke, è un formidabile attore che si affida assai, peraltro giusta tradizione, alle risorse dello Sprech-gesang. Una stinta Erda è Anne Pellekoorne, un delizioso Uccellino Inka Rinn. Debbo affrontare la parte per me fastidiosa della mia incombenza, lo spettacolo di Robert Carsen con scene e costumi di Patrick Kinmonth. Dico fastidiosa perché un allestimento ozioso e futile, concepito per compiacere alla moda ("l'adulazione ad una opinione predominante ha tutti i caratteri indegni di quella che si usa verso i potenti", Manzoni, Fermo e Lucia, capo III), non meriterebbe una descrizione che finisce pur sempre col fare da ratifica. Qualche esempio mi tocca. Non mi scandalizzo dunque per il I atto, l'antro di Mime, un barbone ricoperto da una lurida canottiera sotto una giacca di pelle, una roulotte situata in una discarica di televisori, lavatrici, cessi. Osserverò piuttosto che il procedimento di fusione della Spada è ricostruito con insolita minuzia, fuoco vero, etc, sì da richiedere all' interprete cognizioni da metallurgico. Ma il II atto si svolge entro una foresta distrutta da una catastrofe ecologica, tutti gli alberi come lapis spezzati. Ciò non è ammissibile, non è questo il mondo del Siegfried: tale atto è quello della poesia della Natura vivente, pulsante, parlante, onde la rivelazione a Siegfried del suo destino. Nel III avviene l' ultimo mistero orfico, l' ultima evocazione che Wotan fa di Erda, la dormiente sapienza primordiale, traendola dal suo abisso per poi eternamente ricacciarvela. La scena potentemente religiosa si svolge in un salotto borghese in disarmo, da un lato accatastate consolles Luigi XV, dall' altro seggiole Luigi XVI palesemente d'imitazione, da caffè. Erda compare in costume da cameriera, col suo bravo grembiale e, alternandosi con Wotan, spazza pure a terra. Questo non è teatro, è solo provincia tedesca, vecchiume che dura da quarant'anni. Carsen ben potrebbe rendersi conto che così facendo macchia un nome, il suo, per altri versi davvero grande, rispettato, amato. Paolo Isotta | |
In Siegfried tutto il fascino di Wagner Lorenzo Arruga Siegfried, l’eroe senza paura e quasi senza coscienza, forgia la fatale spada che solo suo padre ha potuto strappare dalla quercia dov’era imprigionata e che il dio Wotan ha spezzato: andrà con questa ad uccidere il drago che custodisce il tesoro maledetto dell’oro rubato al Reno, assaggiandone il sangue infuocato comprenderà il linguaggio degli uccelli e uno di loro lo condurrà dove la guerriera figlia di Wotan dorme un letargo protetta in un cerchio di fuoco: vi entrerà, la risveglierà alla vita, la sveglierà all’amore. Tutte cose che i wagneriani sanno, e che per gli altri sono favolose ed ardue, nello scorrere a passo biblico della musica di voci ardimentose d’orchestra dal respiro sinfonico. Cose che sono o ordinate nella cultura o annidate in una confusa memoria. A Venezia, per la regìa di Robert Carsen, scene e costumi di Patrick Kinmonth, la fucina dove il nano malefico Mime non riesce a compiere il suo lavoro e cerca di sfruttare l’ingenuo giovanotto Siegfried è un ripostiglio di ferraglie con l’avanzo d’una roulotte. La foresta è fatta di tronchi mozzi e trapela ad un tratto una luce, innaturale come un prodigio e inquietante come un destino fatale. Il luogo di Brunilde è una lingua di fuoco che Siegfried supera e che viene dimenticata, e l’amore faticosamente nasce nello spazio vuoto. E succede una cosa che i sostenitori dell’opera intoccabile ed i maledetti dissacratori non possono capire: chiunque legga dentro queste suggestioni la vicenda, la vive intensamente: perché i cantanti-attori, i magnifici Stefan Vinke, protagonista, Greer Grimsley, Wotan, Susan Bullock, Brunhilde, Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, Werner Van Mechelen, Bjarni Thor Kristinsson, Anne Pellekoorne, Inka Rinn, condotti dalla genialità del regista e dalla devozione del direttore Jeffrey Tate, taumaturgico sull’orchestra, sono, nota su nota, gesto su gesto, le creature mitiche e potenti di Richard Wagner. Con un loro carattere specifico, che si distende come una tinta particolare di questa interpretazione, una stupefatta e rassegnata malinconia, il preludio al crepuscolo in cui quel mondo sta per essere risucchiato. C’è una scena rivelatrice: quando Wotan, nella sua casa con camino, in borghese abito distinto come un generale in pensione, evoca Erda, la saggia dea della terra, addormentata in grumi di lenzuola, ed ella si alza frastornata e nei due che amarono pesa la stanca resa al destino. Si allontana profetica e smarrita come già presa dal nuovo sonno e ci vince una sublime malinconia. Poi ci cimentiamo con la fatica dolente di Brunilde per accettare l’amore, ed all’amore che la conquista. È la fine della lunga opera: tutti applaudiamo a lungo e usciamo consapevoli che questo Siegfried continuerà a lungo ad interrogarci. | |