OPERA di SANDRO CAPPELLETTO Una scena di "Turandot" a Venezia Turandot, le colonne d'Ercole di Giacomo Puccini. L'opera che amava troppo, alla quale pensava "ogni ora, ogni minuto" e che lasciò incompiuta: forse la malattia, forse l'impossibilità di risolvere, nonostante quattro anni di continuo lavoro, una vicenda che nelle due donne protagoniste contrappone orizzonti poetici e drammatici inconciliabili. L'ultimo titolo della grande storia del melodramma italiano, dice un luogo comune. Il primo capolavoro, invece, di un faticoso e necessario cammino di rinnovamento. La Fenice porta in scena la "principessa di ghiaccio" e anzitutto toglie: via le cineserie monumentali ed esteriori; via tutti i finali aggiunti: i due di Franco Alfano, uno lungo, l'altro scorciato da Toscanini, entrambi troppo violenti rispetto agli abbozzi lasciati da Puccini; via anche quello, recente, di Luciano Berio: sapientissima pagina musicale, ma un ramo che, dal punto di vista teatrale, male si innesta sul tronco da cui prende vita. Finire con le ultime note scritte dal Maestro: la morte di Liù, il compianto per il suo sacrificio di schiava innamorata: così pucciniano! E, prima, raccontare i binari paralleli lungo i quali corre l'opera: la fiaba e la tragedia, il mito - presente in tante culture - della donna che ama la Luna, detesta l'Uomo e non si vuole sposare, e la storia di un principe che, mettendo in gioco la testa, si innamora dell'idea di lei e del potere che promette. Una scena essenziale, colmata di gesti mai gratuiti e viva di continue invenzioni di luce. Il coro che appare e scompare, alto sul palcoscenico, sempre incombente, sempre passivo: e quando accenna una sommossa, guardie vestite come i poliziotti cinesi di oggi lo manganellano. Questo allestimento - regia, scene, costumi e luci - di Denis Krief viene dalla Germania e andrà negli Stati Uniti, certamente non a Peckino, capitale di un paese che manganellate, e di più, continua a darne. Turandot e Calaf sono chiusi nella loro gabbia, ognuno vittima del ruolo che gli è stato assegnato e delle proprie irrisolte angosce. Il gioco teatrale è governato dal Mandarino (perfetto Timothy Sharp), il volto bianco di biacca: apre e chiude la storia e gioca con la Luna con la grazia con cui Charlie Chaplin danzava col mappamondo. Poi il palloncino scoppia: un'altra testa è stata mozzata, il coro urla il suo orrore. Qualche compiacimento solo quando Ping, Pang e Pong (Giorgio Caoduro, Gianluca Floris, Matthias Wohlbrecht, ottimi interpreti) allineano quello che resta dei prìncipi pretendenti: crani alla sommità di manichini metafisici, come volti di De Chrico. Dirige la trentenne cinese Zhang Jiemin: stacca tempi saettanti nel primo atto e, ben coadiuvata dall'orchestra, fa capire quanto, dietro Puccini, ci siano anche lo Stravinskij della Sagra e il Novecento inebriato di ritmi. E' più vigorosa che precisa e non ancora autorevole con i cantanti; ma come governare Giovanna Casolla, storica interprete del ruolo? Stile verista e gigione, però una voce che trapassa lo spazio come una lama di ghiaccio. Neppure Walter Fraccaro è campione di eleganza: un Calaf che punta tutto sul "Nessun dorma" e, lì, sbanca il teatro. Come Maria Luigia Borsi, una Liù intima, intensa, convincente nel fraseggio. Doti in parte condivise dal Timur di Federico Sacchi. Un solo intervallo, due ore e trenta di durata, applausi convinti. Venezia, La Fenice, fino al 18 dicembre | |
"Turandot" di Puccini chiude la stagione della Fenice Venezia. Si è molto parlato del fatto che Arturo Toscanini, quando diresse alla Scala, in prima assoluta l'incompiuta "Turandot", il 25 aprile 1926, interruppe l'esecuzione con le parole: "Qui termina l'opera, qui è morto il Maestro". Ma poi Toscanini si accorse che si doveva completarla e ne affidò la realizzazione del finale mutilo a Franco Alfano. La composizione non fu agevole anche perché il musicista napoletano lavorò sullo spartito per canto e pianoforte (la consultazione della partitura autografa gli venne consentita soltanto quando aveva quasi concluso il suo impegno) e utilizzò solo parzialmente gli abbozzi di mano dell'autore. Toscanini poi sottopose la nuova partitura a notevoli mutilazioni. D'altronde è un apporto debole, poco pucciniano, fragoroso e celebrativo. È dunque più che giustificato che, sempre Ricordi, abbia sollecitato recentemente Luciano Berio a comporre un nuovo finale con un rigoroso rispetto delle fonti. Ricostruzione magistrale, di impostazione mahleriana, che lega molto bene con Puccini. Denis Krief ha deciso di finire l'opera con la morte di Liù, appellandosi a Toscanini. Indubbiamente è meglio rinunciare ad Alfano, ma è strano che non si riprenda anche in Italia la partitura di Berio, che oltre tutto ha il merito di concludere l'opera con un pianismo estenuato e senza enfasi, secondo quanto emerge dagli schizzi di Puccini. Ma c'è soprattutto una ragione per così dire ideologica che induce a non rinunciare alle ultime due scene. Con la scelta della Fenice l'allegoria dell'opera viene attenuata: "Turandot " finisce con il consueto vittimismo femminile, incarnato da Liù, cui Puccini voleva opporre - proprio nell'epilogo non ultimato - l'alternativa antinaturalistica della Principessa di gelo. Comunque accontentiamoci per ora di non ascoltare il retorico finale di Alfano. La regia di Denis Krief è notevole e originale. L'impostazione è moderna, Anni Venti, vicina al pensiero tedesco del Bauhaus. Enormi pannelli mobili racchiudono le masse dai costumi semplici e stilizzati, un'allusione, alla Repubblica popolare cinese. L'esotismo esplicito è saggiamente decapitato anche perché "Turandot" è stata troppo compromessa da una oleografia ridondante e insidiosa. Meglio quindi lasciare la parola alla musica, allo sforzo immane di Puccini di convertirsi alle sirene della modernità. In un impianto scenico rigorosamente astratto, in cui le masse corali appaiono e scompaiono in un'affascinante alternanza di assenza-presenza, spetta alla continua metamorfosi cromatica delle luci esaltare la teatralità dell'opera: è un caleidoscopio coloristico, legato al suono, quasi risorgessero le sinestesie utopiche del "Prometeo" di Scriabin. Il Mandarino è un mimo in frac, alla maniera di Jacques Lecocq. Poetica la sua evocazione, con il gioco di una palla bianca, alla Chaplin, di una luna fiabesca e irreale. I tre Ministri sono personaggi di una moderna commedia dell'arte che si trasformano, tra ironia e grottesco, in malviventi americani. Il primo atto è molto ben costruito; nel secondo e terzo atto il meccanismo scenico risulta talvolta ripetitivo. Non mi è chiara la ragione dei manichini-bambole, tra pittura metafisica e sottolineature surreali, che affollano il palcoscenico. Il quadro del martirio di Liù manca di tensione. Comunque sono osservazioni marginali; d'altronde non è un caso che questo spettacolo, proveniente da Karlsruhe, abbia ottenuto negli ultimi anni larghi consensi a livello europeo. La compagnia di canto presenta esiti alterni. Giovanna Casolla, celebre interprete del ruolo di Turandot , predilige accensioni esplicitamente veriste e sacrifica i fraseggi lucidi e intellettuali, propri dell'ultimo Puccini. Walter Fraccaro è un Calaf autorevole, anche perché tocca l'accento eroico da premesse liriche. Di conseguenza in "Nessun dorma" il tenore trascorre da inflessioni intime alla sontuosità drammatica. Maria Luigia Borsi è una delicata Liù e Federico Sacchi un musicalissimo Timur. Brillanti i tre Ministri: Giorgio Caoduro, Gianluca Floris, Matthias Wohlbrecht, incisivo Mandarino Timothy Sharps. Dirige con imperativa sicurezza Zhang Jiemin. È una lettura tra Stravinsky e Prokofiev, accidentata tagliente, essenzialmente ritmica. I tempi talvolta sono troppi lenti, il cantabile troppo compresso. Non si colgono le finezze di un'orchestrazione degna di Ravel. Coro compatto e ben preparato da Emanuela Di Pietro; garbati I Piccoli Cantori Veneziani, diretti da Mara Bortolato. L'orchestra è fonicamente molto presente sotto l'aggressività guida della direttrice cinese. Accoglienze caldissime ed entusiastiche. Mario Messinis | |