IL GAZZETTINO
Domenica 25 Gennaio 2009

Successo per l’inaugurazione della stagione lirica della Fenice all’insegna di una coraggiosa proposta conoscitiva
L’erotismo visionario di Korngold
"La città morta" nel pregevole allestimento di Pizzi, che coniuga Venezia con Bruges




Due momenti da "Die tote Stadt" che ha inaugurato la stagione lirica del Teatro La Fenice
e, sotto, il maestro Eliahu Inbal

Venezia. Fulgori della Vienna all’inizio del Novecento. Nell’ambito musicale i maggiori compositori del tempo, Schönberg e Strauss (che gravitava, da Monaco, su Vienna), Schreker e Zemlinsky, rappresentavano un indirizzo abbastanza omogeneo, espressione del gusto floreale o "Jugendstil".

Poi le strade, intorno alla fine del primo decennio, si divaricano: da un lato il rifiuto dell’ornamento, dall’altro una decorazione straripante, pensata da compositori che erano anche grandi direttori d’orchestra. Franz Schreker fu il creatore di un’orchestrazione che esaltava i valori del timbro caleidoscopico, con una sapienza strumentale degna di Strauss. Penso che Erich Wolfgang Korngold sia l’erede di Schreker per quanto concerne l’idea fantasmagorica del suono-colore orchestrale, soprattutto nella giovanile "Die tote Stadt" (La città morta, 1920) ora proposta alla Fenice. Ciò è evidente, per esempio, nell’ornato liberty dell’arpa, accostato alle lucenti decorazioni "magiche" di mandolino, celesta e pianoforte, quasi un corrispettivo dell’arte applicata viennese. D’altronde non è un caso che la divulgazione figurativa dell’arpa avvenga nelle decorazioni editoriali nel tempo.

Quest’opera è un esempio tipico di simbolismo floreale epigonico, proprio del momento in cui la cultura viennese è divisa tra l’estremismo dell’avanguardia e una voracità decorativa, non priva di enfatica esaltazione, che sembra prevedere le seduzioni della musica per film del compositore austriaco, anche se l’incontro tra Vienna e Hollywood sarebbe avvenuto solo un quindicennio dopo.

Di fatto "La città morta", esempio di un visionario erotismo, sarebbe un capolavoro se fosse sorretta da una drammaturgia meno statica e ripetitiva. I tormenti onirici di Paul, che crede di ravvisare nella sensuale danzatrice Marietta la moglie morta Marie, uccidendola in sogno con un affermativo slancio liberatorio, non conoscono una reale crescita psicologica e si consumano, nei momenti più suggestivi, in estasi morbose, se non in delicati lirismi memori di Mahler. In definitiva, una testimonianza d’epoca, un monumento eretto allo spirito del tempo.

La vicenda è ambientata a Bruges, la città d’acqua descritta nel libretto, desunto da un dramma simbolista dello scrittore belga Rodenbach, molto reputato dagli esperti. Pier Luigi Pizzi segue fedelmente le didascalie del libretto, che sono di fatto indicazioni di regia. La scena fissa è tra le più forti idee teatrali del regista, scenografo e costumista. Al proscenio una stanza mortuaria, con asfodeli e un quadro di Marie, che raffigura l’ambientazione funebre dell’opera. Il mistero acquatico è di un’affascinante visione simbolista: l’acqua si riverbera in un immenso specchio ove si animano le figure oniriche. L’idea di coniugare la città medievale belga con Venezia, di cui parla Pizzi, rispetta le indicazioni del libretto, nonostante qualche eccesso nel quadro lagunare dei commedianti dai risvolti macabri. Qui il compositore inventa un operettistico concertato danzante, che è una magistrale musica di intrattenimento. L’interesse dell’opera si allenta nel terz’atto, nella reiterata retorica della passione e nella vistosa processione mistica, una perversa cerimonia liturgica, che Pizzi realizza con una immaginazione debordante, appesantita da esteriori movimenti coreografici. Così rimangono vivi nel ricordo soprattutto i solitari dialoghi dei protagonisti, là dove vivono in una rarefatta necrofilia decadentistica, fedele alla musica, come nella fantomatica apparizione di Marie-Marietta, forse il momento più intensamente poetico dell’opera. Molto raffinati i costumi anni Venti.

Un’affascinante idea
simbolista basata
sul mistero acquatico;
ottimo il cast vocale,
autorevole Eliahu Inbal

Naturalmente anche "La città morta" - come tutto il teatro austro-tedesco tra otto e novecento - nasce sul tronco del wagnerismo, con la coesistenza di cultura alta e di cultura bassa, ove si intrecciano affreschi monumentali, svenevolezze sentimentali, nostalgie operettistiche, canzoni toccanti che prefigurano talora il melodismo di consumo (le "mollezze di anime" di cui parla Kraus). La vocalità dei due protagonisti è impervia ed estenuante. La scrittura tenorile, talvolta retorica, guarda al Parsifal e al Bacco di "Arianna a Nasso" di Strauss, con infiltrazioni del naturalismo declamatorio italiano. Stefan Vinke affronta con sicurezza l’impervia tessitura (nonostante qualche inevitabile sforzo negli acuti), e rivela le sue risorse interpretative soprattutto nei momenti lirici. Il soprano Solveig Kringelborn spicca nelle accensioni erotiche, eco di Salome, di Kundry o di Isotta, ma anche nei melodicissimi intimismi e nella sfrontata brillantezza vicina all’ "opera di attualità". C’è un magnifico mezzosoprano, Christa Mayer, nel piccolo ma decisivo ruolo della governante Brigitta, che riconduce il protagonista alla concretezza realistica dopo l’illusione del sogno. Il baritono Stephan Genz incarna, con penetrante naturalezza, le figure di Franz, l’amico di Paul, e di Fritz-Pierrot, cui Korngold affida un lied di incantevole grazia. Perfettamente coordinati tutti i ruoli minori dell’eccellente compagnia.

Eliahu Inbal si muove autorevolmente tra le sabbie mobili di una partitura molto complessa, che mette soprattutto gli archi a dura prova. Il direttore predilige il grandioso sfarzo sinfonico e un’impostazione drammatica quasi espressionista. Si potrebbe soltanto osservare che nella "Città morta" l’espressionismo non è preminente. Ci sono anche toni di commedia e delicatezze sensibilistiche che forse interessano meno al direttore israeliano. L’orchestra l’ha seguito con incisiva evidenza; il coro della Fenice è diretto da Claudio Marino Moretti e quello dei Piccoli Cantori Veneziani da Diana D’Alessio.

Complessivamente un’eccezionale inaugurazione e una coraggiosa proposta conoscitiva. Sarebbe interessante ascoltare in Italia un altro testo fondamentale dello Jugendstil, "Die Gezeichneten" ("I condannati") di Franz Schreker, che precedono di soli due anni l’opera di Korngold. Un fondamentale contributo alla scarna bibliografia dall’autore è offerto dal volume-programma, curato, come di consueto, da Michele Girardi. L’opera è piaciuta e i consensi sono stati molto cordiali.

Mario Messinis

 

Il Giornale di Vicenza
Domenica 25 Gennaio 2009

LIRICA. L’INAUGURAZIONE DELLA STAGIONE DELLA FENICE CON L’OPERA OGGI DI RARA RAPPRESENTAZIONE DI KORNGOLD
L’ossessione della perdita nella livida "Città morta"
Fra decadentismo e teoria dei sogni la "liberazione" di un uomo che non si rassegna alla morte della moglie

Cesare Galla
INVIATO A VENEZIA


Una scena di "Die tote Stadt" di Erich Korngold, che ha inaugurato la stagione della Fenice.
MICHELE CROSERA

In una Bruges oscura e opprimente di acque stagnanti, un uomo vive il rapporto con la giovane moglie morta in maniera ossessiva e morbosa, al punto da avere trasformato la sua casa in una sorta di lugubre santuario della memoria, con ritratti e oggetti che le sono appartenuti, fino a conservare come una reliquia la sua treccia bionda. Il casuale incontro con la ballerina di una compagnia di giro, singolarmente somigliante alla defunta, scatena una crisi profondissima, fra pulsioni erotiche quasi incontrollabili e sensi di colpa intrisi di bigotta religiosità; la stessa danzatrice ben presto entra in una situazione di perversa conflittualità con la morta e provoca diabolicamente l’uomo – profondamente lacerato – fino a scatenarne la furia omicida e a finire strangolata con la treccia. Ma non si tratta di un caso di aberrante cronaca nera: in realtà l’uomo – dopo il primo incontro con la ballerina – ha sognato tutto il resto. Al risveglio troverà finalmente la forza per elaborare definitivamente il suo lutto e superare la crisi, lasciandosi alle spalle Bruges e le sue memorie da incubo.

Il punto di partenza di Die tote Stadt (La città morta), l’opera di Erich Korngold che ha inaugurato l’altra sera la stagione della Fenice, è un romanzo simbolista, intriso di decadentismo, pubblicato nell’ultimo decennio dell’Ottocento; quello di arrivo nel 1920 (quando il lavoro debuttò con enorme successo) è una sorta di lieto fine all’insegna della consapevolezza psicanalitica secondo la teoria dei sogni di Freud. Come in un giallo psicologico, quello che all’inizio può dunque sembrare un inattuale ritorno ad atmosfere e sensibilità spazzate via dalla Grande Guerra, finisce per risultare un intrigante espediente narrativo che conduce su un piano molto più moderno, secondo logiche stilistiche che già in qualche aspetto prefigurano l’espressionismo e comunque rivisitano il contesto tardo-romantico con sorvegliata lucidità, assai lontana dall’estetismo fine a se stesso.

E tutto trova nella virtuosistica scrittura musicale di Korngold (che – fuggito dalle persecuzioni hitleriane – avrebbe trovato la fama a Hollywood come autore di colonne sonore due volte premiato con l’Oscar) un risalto drammaturgico di sontuosa complessità, dall’eclettismo a volte fin troppo facile ma il più delle volte straordinariamente comunicativo.


Il tenore Stefan Vinke, protagonista di "Die tote Stadt".
MICHELE CROSERA

VISIONI ONIRICHE. Alla Fenice, quest’opera oggi rara è stata proposta nella "visione" di teatrale efficacia di Pier Luigi Pizzi, autore di regia, scene e costumi. Il luogo del "santuario" è a proscenio, fiori bianchi e arredi neri. Un vero e proprio sipario lo separa da Bruges, luogo degli incubi e delle fantasie malate. Qui l’acqua è protagonista davvero, alta un paio di palmi: presente anche sonoramente, nello sciabordio creato da chi vi si muove dentro, e rifratta nel grande specchio nero inclinato che chiude la scena sul fondo, nel quale anche le figure che si aggirano in gondola (inevitabile il richiamo a Venezia) diventano larve o fantasmi.

La soluzione è di grande impatto visivo ed è anche molto funzionale alle concatenazioni della vicenda con i suoi snodi onirici ingannevolmente fluidi, all’atmosfera sospesa e atona che è la cornice dentro alla quale si agitano passioni di violenza solo apparentemente molto concreta, in realtà sempre sul punto di implodere, piuttosto che esplodere.

Musicalmente, l’impronta data da Eliahu Inbal, che guidava l’esecuzione dal podio, è stata quella della sottolineatura incessante del tessuto sinfonico magniloquente costruito da Korngold (molto positiva la risposta dell’orchestra della Fenice). Fraseggio turgido, non senza qualche pregevole attenzione a certi particolari coloristici, dinamiche accese e taglienti, spesso spinte espressionisticamente fino quasi alla deformazione del suono. Su questa linea si è mosso il tenore Stefan Vinke, chiamato all’arduo ruolo del protagonista. Già apprezzato Sigfrido wagneriano alla Fenice nel 2007, Vinke ha proposto una linea di canto senza ripieghi lirici, semplificando forse una scrittura vocale che non è solo verista o espressionista, e soprattutto faticando a mantenere saldo il controllo del colore; nella sua interpretazione, l’ossessione si risolve il più delle volte in urlo e disperazione. Ben più sottile l’approccio della sua controparte di "eterno femminino", Solveig Kirngelborn, voce della seduzione e della perdizione dalle molte sfumature, adeguata all’ambiguità essenziale e sconvolgente del personaggio. Positivo l’apporto dei comprimari, con in evidenza il baritono Stephan Genz e il mezzosoprano Christa Meyer, sofferente testimone del percorso fino ai confini della follia del protagonista.

Pubblico non proprio da tutto esaurito per un’inaugurazione sofisticata e di notevole livello; alla fine accoglienze molto cordiali per tutti i protagonisti delle spettacolo. Quattro le repliche: questo pomeriggio, il 27, 29 e 31 gennaio.

 

la Nuova di Venezia
25 gennaio 2009

SPETTACOLO
La "città morta" di Korngold risorge nel sogno-incubo di Pizzi e Inbal

di Mirko Schipilliti

VENEZIA. Dove stava andando la musica negli anni ’20 del primo ’900? Die Tote Stadt (La città morta, 1920) di Erich Wolfgang Korngold, in scena alla Fenice da venerdì scorso fino al 31 gennaio (prima rappresentazione a Venezia), è anche la fotografia di un’epoca, crocevia di molte strade e stili, partitura intrisa di entusiasmi giovanili, di ombre wagneriane e straussiane ma anche di intuizioni geniali, dove la voce è parte di un tessuto sinfonico densissimo. I riferimenti letterari alla corrente simbolista belga di Georges Rodenbach con la trasfigurazione decadentista di Bruges, rivissuta come "città morta", insieme alla dimensione del sogno, autentica protagonista, propongono stimoli e problematiche registiche affascinanti.

Pier Luigi Pizzi firma regia, scene e costumi affrontando con l’eleganza e la delicatezza di sempre questa storia di sogno, passione, e psicopatologia per la prima volta. Geometrico e lineare, in ogni istante complementare alla musica e mai didascalico, l’allestimento di Pizzi separa la scena in realtà e sogno attraverso l’acqua, onnipresente grazie a un fondale di specchi: è da lì che giunge l’apparizione della defunta moglie di Paul, protagonista, è lì che Paul se ne va alla fine. E’ l’acqua di Bruges, ma anche quella di Venezia, evocata da una festa in maschera su una gondola. Se il sogno appartiene alla notte, ma qui anche a un delirio onirico di morte, il clima lugubre predilige tinte nere (sfondi, costumi) e giochi di luce in dissolvenza. I voluti toni blasfemi della processione religiosa sono obbligate proiezioni del sogno di un malato, sfiorando l’incubo perverso il cui epilogo può sopraggiungere solamente da un risveglio terapeutico.

Eliahu Inbal dirige la monumentale partitura tutta d’un fiato, e l’orchestra suona con grande slancio e precisione, ma la ricchezza del linguaggio di Korngold non deve sembrare un melting pot a briglia sciolta, lo sfavillio lussureggiante di timbri, figure melodiche e ritmiche necessita di una configurazione esatta e di un rigoroso ordine nei materiali musicali, altrimenti l’orchestra diventa accompagnamento e non logica conseguenza di un pensiero impalpabile fra le righe delle parti vocali.

Cast di alto livello, su cui troneggia Solveig Kringelborn (Marietta e Marie), duttile in qualsiasi registro, delicatissima nei fraseggi e nel candore di tinte. L’impervia parte tenorile affidata a Stefan Vinke (Paul), propone una voce wagneriana già nota e molto convincente, ma la scrittura di Korngold è quasi impossibile da rendere, sconfinando in tessiture che mettono a dura prova l’intonazione e la tenuta vocale. Ricordiamo le belle arcate liriche di Christa Mayer (Brigitta), la solidità di pronuncia di Stephan Genz (Frank), le coreografie di Marco Berriel e gli interventi dei Piccoli Cantori Veneziani. Successo caldissimo.

 

Il Sole 24 Ore
31 gennaio 2009


 

Il giornale della musica
26 gennaio 2009

RIFLESSI SULL'ACQUA ALLA FENICE
Il teatro veneziano apre con la poco rappresentata "città morta" di Erich W. Korngold

Aprire una stagione lirica a Venezia con un titolo come "Die Tote Stadt" (La città morta) di Korngold è di questi tempi, oltre che coraggiosa e encomiabile, anche una scelta che cela una certa ironia e scaramanticità. Così come scaramantiche sono state le spille di velluto viola distribuite all'ingresso per protestare contro i continui tagli finanziari al settore. Qualche poltroncina vuota in platea è forse il segno (oltre che dello sciopero dei treni) che il pubblico non vuole rischiare un nome meno conosciuto? Si spera di no, anche perchè l'opera di Korngold è, se non memorabile, di certo ben scritta e ricca di quelle suggestioni tardo-romantiche che poi ci sarebbero diventate familiari in tante colonne sonore hollywoodiane - non a caso questa fu la destinazione del compositore.

L'allestimento di Pier Luigi Pizzi gioca con pochi colori, il nero, il bianco e il rosso, affidando a un semplice ma efficacissimo gioco di specchi l'evocazione di una Bruges spettrale invasa dall'acqua alta (il richiamo alla Venezia britteniana dello stesso Pizzi era dichiarato), ma cadendo, specie nel terzo quadro, in qualche cedimento di gusto. Qui si consuma il dramma del vedovo Paul, che vive nel culto della defunta consorte e crede di ritrovarla nella giovane ballerina Mariette, per poi accorgersi, in un crescendo onirico, di dovere lasciare la città se vuole provare a ricominciare. Opera quasi tutta sulle spalle dei due cantanti, un troppo affaticato Stefan Vinke e una buona Solveig Kringelborn, diretta da Eliahu Inbal con la consueta esperienza, questa "Die Tote Stadt" ci è sembrata poco convincente, un po' pesante nei movimenti dei due protagonisti (il povero tenore praticamente sempre a terra prostrato!) anche se suggestiva nelle immagini riflesse sul fondo. Applausi, ma non troppi.

Enrico Bettinello

 

mundoclasico.com
Venecia, 31/01/2009

El agua inmóvil

Por Anibal E. Cetrángolo

La Fenice inauguró su temporada 2009 con una ópera no popular y fue bien recompensada por el público. En la representación que presencié, la del sábado 31 de enero, el teatro mostraba muy pocos claros. Los músicos y el director lucieron el símbolo de la sfiga, la mala suerte, un distintivo violeta para continuar la protesta contra los cortes a la cultura de Berlusconi. Los títulos que seguirán a esta ópera de Erich Korngold son las siguientes: Roméo et Juliette de Gounod, en producción nueva y conjunta con Verona y Trieste, Maria Stuarda de Donizetti con regie de Krief y que promete a Cedolins y Bros (alternándose con Piscitelli-Schmunck a quien escuché en el mismo rol en Berlín), Butterfly, Götterdämmerung, la última jornada de la Tetralogia (por fin!) con el exitoso equipo Tate-Carsen, la ya cansada Traviata de Carsen y, hacia fin de año, la tan complicada Agrippina de Handel dirigida por Fabio Biondi y Šárka de Janáček en dúo con Cavalleria Rusticana.

El título de Korngold, que fue exitoso en sus días, reaparece ahora de cuando en cuando en los teatros importantes y era nueva para Venecia. Su autor era hijo de un importantísimo crítico musical que frecuentaba Mahler y Puccini y en el ámbiente académico es conocido por los violinistas que tocan cada tanto su concierto. Compuso esta ópera, no la única por cierto, a los 23 años. El melodrama se presentó en 1920 simultáneamente en Hamburgo y Colonia dirigida respectivamente por Egon Pollack y Otto Klemperer. También sus primeros intérpretes vocales fueron monumentos de la historia de la música como Maria Jeritza, Lotte Lehmann y Richard Tauber.

Tanta promesa de triunfos futuros fue cortada, al menos en el sendero lírico, por el nazismo. La prudencia aconsejó a Korngold y familia emigrar a Norteamérica, lo que significó para el compositor encontrarse con el naciente cine sonoro y entonces Hollywood, música para películas con Errol Flynn (Robin Hood y otras) y Olivia de Havilland, y otro tipo de laureles: un par de Oscars.

Esta ópera es resultado representativo de lo más ecléctico de aquella época fantástica y tremenda para la cultura de Europa. Los perfumados cuadros del simbolista belga Konpff y sobre todo Freud sin pudor, Freud y más Freud. La obra parece escrita entre Berggasse 19, la casa vienesa de Freud y la Galería del Belvedere donde se conserva una reliquia del pintor que tanto influyó sobre Klimt: un cuadrito que se llama nada menos que L’Eau immobile. Es precisamente el agua inmóvil la protagonista de esta opera. El agua que fue fuente de vida y que ya no lo es más. La ciudad que fue generadora de la cultura que amábamos pero que no puede dar nada nuevo. Brujas, Venecia, Viena. El ensueño enfermo del quedarse. El abandono doloroso pero que es salvífico: Freud necesita dos visitas de la Gestapo para decidirse a dejar aquella casa y el protagonista de Korngold necesita un sueño espantoso y liberador. Finalmente Paul puede decir (¡y no cantar!) "Ich wills, ich wills versuchen", "quiero intentarlo".

Knopff, personaje del mundo de la opera, colaborador habitual en las puestas del teatro de la Monnaie en Bruselas es homenajeado en esta producción con creces: su arte es el sello de esta puesta. El ambiente es el suyo, por otro lado el pintor había hecho los bocetos para la puesta de Le Mirage obra de Georges Rodenbach que es precisamente la fuente -junto con la novela Bruges-la- Morte del mismo Rodenbach- de Die tote Stadt.

La producción de la Fenice fue excelente. El responsable musical Eliahu Inbal, director estable (¡por suerte!) de la orquesta veneciana, presentó con inigualable solvencia una música que entiende hasta en sus matices más íntimos. Música a veces cercana a Puccini, y otras a Richard Strauss (la seducción de Marietta, tan hermana de Salomé, parienta de algún poema sinfónico…) es elocuente aunque no siempre eficaz en si misma. Leyendo la cosa desde el final (¡claro que demasiado fácil!) se puede decir que fue la pantalla del cine la que garantizó una estructura dramática a esta música que a veces se muerde la cola. De todas maneras el acto final es absolutamente convincente también en los aspectos teatrales.

La puesta fue uno de los mejores trabajos que he visto de ese excelente artista que es Pier Luigi Pizzi. Dió movimiento a algo difícil de mover, gracias….al agua negra que realmente inundaba la parte posterior de la escena y que se reflejaba con paneles especulares. Knopff fue aludido y explicito. De la fantasía de Pizzi salieron ideas sagaces al servicio de una concepción clara, fruto de la conciencia profunda del texto. ¿Cuántas veces se puede escribir esto hoy en día?

Los artistas vocales simplemente excelentes. El tenor Stefan Vinke, que cantó el bellísimo Sigfrido de la producción Tate-Carsen, encarnó el arduo rol de Paul con total idoneidad. La Marie-Marietta de Solveig Kringelborn, artista de gran trayectoria, fue desde todo el punto de vista vocal y teatral memorable y los comprimarios no deslucieron tal nivel. No quiero concluir sin destacar la participación sublime de Christa Mayer en el rol pequeño de Brigitta. ¡Cuanto me hace recordar a la Lehmann de aquel disco con lieder de Schumann que habría que comprar cien veces, en el que pianista ‘acompañante’ es…Bruno Walter!

El público acogió muy calurosamente este esfuerzo heroico del teatro.

La Fenice. Die tote Stadt, ópera en tres actos de Erich Korngold sobre un libreto suyo y de su padre. Estreno, Hamburgo y Colonia, 1920. Regisseur, escenográfo y vestuario, Pier Luigi Pizzi. Coreógrafo, Marco Berriel. Luces, Vincenzo Raponi. Elenco: Stefan Vinke (Paul); Solveig Kringelborn (Marietta / La aparición de Marie); Stephan Genz (Frank / Fritz); Christa Mayer (Brigitta); Eleonore Marguerre (Juliette); Julia Oesch (Lucienne); Gino Potente (Gaston); Shi Yijie (Victorin); Mathias Schulz (Il conte Albert). Orquesta y coro (director, Claudio Marino Moretti) del Teatro la Fenice. Director musical, Eliahu Inbal